Quei favolosi e indimenticabili tre giorni del rock psichedelico avvennero solo cinquant’anni fa.
Orde di ragazzi imperversavano tra le strade verso il luogo che poi Woodstock non era, ma Bethel, per protesta dei residenti.
Di quell’ampia collina ora rimane il silenzio, il verde e gli alberi. Cinquant’anni fa il silenzio non era contemplato, complice anche il maltempo che ridusse la collina a acqua e fango, ma i ragazzi non erano intimoriti: forse consapevoli anche loro che quel festival sarebbe rimasto nella storia come IL festival per eccellenza. Le foto scattate ritraggono l’essenza di quel periodo “pace, amore e musica”, il motto dello stesso Woodstock.
Capelli lunghi, folti, barba incolta, pantaloni a zampa e frange era il look all’insegna della libertà che richiedeva la moda del tempo, quella stessa libertà che tra cartelloni e slogan era diventata il bisogno principale dei giovani protagonisti della controcultura. La rivoluzione era sociale e la musica che ascoltavano, il rock psichedelico, pieno protagonista del festival, ne rifletteva i l’essenza. Bisognava aprire le porte della percezione, liberare i sensi e dare vita a una nuova lettura della realtà che permettesse di evadere dal quotidiano. Ed era proprio questo tipo di musica che conciliava il “trip”, il viaggio verso dimensioni eteree, oggetto di visioni, viaggi onirici, descritti nelle canzoni stesse come “Lucy in the sky like diamonds” dei Beatles, che faceva:
«Immagina te stesso in una barca su un fiume
con alberi di mandarino e cieli di marmellata
qualcuno ti chiama, tu rispondi lentamente
una ragazza con gli occhi caleidoscopici»
L’esibizione degli artisti fu però penalizzata da vari problemi tecnici poi riversati nella qualità scadente del disco stesso, ma la portata del significato socio-culturale di Woodstock rimane comunque leggenda. Sul palco Joan Baez, Santana, The Who, Joe Cocker, Jimi Hendrix, solo per citarne alcuni, tutti insieme per quei tre giorni di pura follia, tre giorni indimenticabili nel bene e nel male.
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