Un giorno, alle soglie della mezza età, Lorenzo si diede una lunga occhiata allo specchio. L’immagine riflessa gli inviò un messaggio inequivocabile. La vita se ne stava scorrendo via; quanto a lui, non stava andando da nessuna parte. Era esaurito: annoiato sul lavoro, disamorato della moglie, soffocato dalla famiglia, disincarnato per quanto riguardava se stesso. Ma quello che lo colpì più duramente, che lo afferrò e lo scosse fino al centro del suo essere, fu il pensiero che in fondo a quella squallida sequenza di giorni ci fosse l’oblio. Era tempo di cambiare.
Quel giorno, mentre andava al lavoro, Lorenzo si fermò come sempre all’edicola a comprare un quotidiano. Pagò il giornale ma quando uscì, approfittando di un momento in cui l’edicolante non stava guardando, prese da uno scaffale una tavoletta di cioccolata e se la fece scivolare in tasca. Stranamente, quel piccolo furto gli diede una sfrenata energia. Percepiva sensazioni essenziali e primitive; corse alla macchina in un vortice di esaltazione. Guidò più velocemente del dovuto ma invece di andare a lavoro, si macinò duecento chilometri buoni, da Roma fino a Napoli. Quando ormai cominciava a far sera si ritrovò seduto su una spiaggia, con una tiepida brezza di mare che gli soffiava sul volto. Era profondamente felice.
Il sole tramontò, si fece buio e poi venne il freddo, ma lui rimase lì tutta la notte, cedendo al sonno solo quando il sole tornò a sorgere, da un’altra parte del cielo. Poteva esser certo, si chiese, che si trattasse dello stesso sole? Quel giorno tornò a casa tardi, senza poter dare alcuna spiegazione a parte la verità; e così passò un’altra notte insonne cercando di tranquillizzare la moglie angosciata, che pretendeva una versione più plausibile degli eventi.
“Lorenzo, che cosa stavi pensando?”
Lui rispose che aveva pensato a tutto, e che aveva chiarito a se stesso alcune cose. Per un paio di settimane, la vita si riassestò sulla routine. Poi, un venerdì sera, mentre stava tornando a casa dal lavoro, Lorenzo accese l’autoradio e ascoltò un servizio su Jimi Hendrix. A un certo punto il conduttore del programma cominciò a parlare delle chitarre elettriche, raccontando di quanto Jimi fosse fantastico a suonare. Per Lorenzo questa fu un’altra sferzata di energia, come quella provata rubando la tavoletta di cioccolata.
Invertì il senso di marcia, rientrò in città a tutta birra e fermò la macchina sul marciapiede davanti a un negozio di strumenti musicali. Mancavano cinque minuti alla chiusura, e i commessi stavano contando l’incasso. Lorenzo disse che voleva una Fender Stratocaster, la chitarra di Hendrix. I commessi eseguirono. Poi acquistò un amplificatore da collegare allo strumento e un libro contenente le trascrizioni nota per nota delle canzoni di Hendrix. Il tutto per un totale di quasi mille euro.
Quando tornò a casa, la moglie gli disse: “Ma Lorenzo, tu non sai nemmeno suonarla, la chitarra…”
Imparerà, le rispose lui.
Quella notte, però, tutta l’esaltazione si esaurì. Rimase steso a letto, sveglio, fino alle prime ore del giorno, in uno stato di agitazione, tormentato dal pensiero di scivolare nel non essere, accompagnato dalla sconvolgente sensazione di prossimità della morte. Stanotte, domani, dietro l’angolo. Sta arrivando, sta arrivando. Fu prossimo al panico. Sta arrivando, arriva. Il giorno dopo, come fulmine a ciel sereno, annunciò alla moglie che il loro matrimonio era finito e abbandonò lei, la casa, i figli e la sua nuova chitarra per non tornare mai più.
Due anni dopo, lo troviamo a vivere da solo in una camera male in arnese alla periferia di una città del nord. Ci sono frammenti, immagini dalla memoria di qualcun altro, ma i pezzi non combaciano – un paralume azzurro, una notte di pioggia, le superfici lucenti in acciaio inossidabile della cucina di un hotel, una donna (Marta? Martina?), una scazzottata, il mare. È difficile mettere insieme i pensieri da un minuto all’altro.
Ha una sensazione di nausea. Qualcosa gli sale contorcendosi dal fondo dello stomaco fino in gola. Nello specchio del bagno, la sua faccia riflessa sembra svuotata di ogni significato, quasi l’assenza di un riflesso. Sta lì in piedi a fissarsi per un po’, poi apre il rubinetto del lavandino, lo chiude, lo riapre, lo richiude e poi ancora, prima di stramazzare sul pavimento. Gli arti rigidi sussultano con violenza per diversi minuti e una gamba dei calzoni si scurisce mentre una chiazza di urina si allarga. Adesso dorme. Questa settimana è la terza o la quarta crisi. La successiva si scatena nel mezzo di un super mercato e Lorenzo viene portato in ospedale. I medici sono preoccupati perché nonostante vi sia ripreso dall’attacco, è rimasto inerte e disorientato. Vanno a fondo, eseguono delle scansioni cerebrali e trovano una grossa massa nella regione orbito frontale. È un meningioma: si tratta di un tumore, di per se stesso benigno. Gli ha invaso le membrane che ricoprono il cervello. Ha continuato a crescere per diversi anni, deformando i suoi lobi frontali, e riplasmando la persona che lui credeva di essere. A quel punto, lo operano. Rimosso il tumore, Lorenzo chiede alle infermiere quasi tutti i giorni: “Quando vengono i miei figli?” e “Adesso posso andare a casa? Mia moglie mi sta aspettando.”
Quand’è che quel tumore a crescita lenta si era insediato dentro di lui? Per quanto tempo era cresciuto nei suoi lobi frontali, pesando su di essi con la sua massa, ricalibrando insidiosamente la sua personalità? Un meningioma come quello di Lorenzo può impiegare anni a svilupparsi, diventando alla fine un elemento stabile del paesaggio intracranico. Entro certi limiti, il cervello può accogliere in sé una massa a crescita lenta senza manifestare segni o sintomi clinici importanti. Dipende dalla velocità di crescita del tumore e dalla sua localizzazione. Alcune persone invecchiano senza mai sapere d’aver ospitato per metà della propria vita, o magari anche più a lungo, un tumore cerebrale benigno. Forse non sapranno mai chi avrebbero potuto essere.
Una volta visitai un uomo – aveva passato i settanta – che era stato ricoverato in ospedale per fare degli esami in seguito a un ictus. Emerse che aveva un tumore delle dimensioni di un’arancia annidato nel lobo parietale del cervello. Il tumore non aveva niente a che fare con l’ictus, probabilmente se ne stava lì da decenni e in apparenza non gli dava alcun fastidio. Era diventato parte di lui.
Forse Robert avrebbe lasciato sua moglie e i suoi figli in ogni caso. Forse era inquieto e annoiato, oppure depresso. Una crisi della mezza età. Può darsi che il tumore avesse solo accelerato il processo o addirittura che non avesse nulla a che vedere con la sua decisione impulsiva di fare i bagagli e andarsene. Non posso escludere completamente questa ipotesi, anche se io non ci credo. La compromissione del giudizio sociale, il comportamento impulsivo e tutto quello che affiorò nel corso del cambiamento di personalità di Lorenzo sono comuni conseguenze di lesioni ai lobi frontali.
A differenza dell’uomo con l’ictus, però, il tumore di Lorenzo stava causandogli dei fastidi: per esempio, era comparsa l’epilessia. Ma supponiamo che non avesse avuto crisi epilettiche. Supponiamo che non ci fosse stata alcuna complicazione evidente e che il tumore si fosse limitato a starsene lì, vivacchiando senza dar troppi fastidi, nel frattempo rimodellando la personalità di Lorenzo. Avremmo dei motivi per dire che il suo comportamento era patologico? No. Lo si sarebbe attribuito a una crisi di mezza età.
Diverse malattie possono indirettamente influenzare il nostro modo di vedere noi stessi, ma a volte la patologia neurologica colpisce dritta al nucleo della persona, distorcendola nella sua essenza. Come le larve di certe vespe parassite che divorano un bruco vivo dall’interno, una malattia può penetrare le sottostrutture del sé: i sistemi neurali che controllano la memoria a lungo termine oppure quelli che regolano le emozioni o l’affiorare delle intenzioni o ancora il formarsi delle credenze. Il tumore a crescita lenta di Lorenzo aveva finito per fargli vedere il mondo in modo diverso. Pensava in modo diverso, si comportava in modo diverso, e provava sentimenti diversi nei confronti delle persone che gli stavano intorno. Il Lorenzo che acquistava abiti e chitarre elettriche costosi sotto l’onda dell’impulso e quello che rubava tavolette di cioccolata, improvvisava viaggi al mare e abbandonava moglie e figli era dunque lo stesso che in precedenza era stato tanto devoto alla sua famiglia, aveva lavorato sodo per pagare le bollette, quello che non si sarebbe mai sognato di rubare uno spillo, che non correva rischi e non si cacciava nelle risse? E in caso contrario, quand’è che Jekyll divenne Hyde? Ci fu un evento o un giorno preciso a segnare la transizione? È possibile ricondurre quest’ultima a un momento preciso? Di tanto in tanto non facciamo tutti cose stupide o affrettate? Quante ne occorrono per pensare a un cambiamento di personalità?
Poi, il viaggio di ritorno. Il tumore di Lorenzo fu rimosso e lui fece ritorno a qualcosa di simile al suo sé precedente. Qualcosa di simile. Desiderava moltissimo sua moglie e i suoi figli. Li rivoleva indietro. Ma per altri versi era irrimediabilmente diverso, sia dal punto di vista intellettuale sia da quello emotivo. Le sue facoltà mentali erano diminuite. Era smemorato e non riusciva a concentrarsi. Non era in grado di programmare le cose da fare dall’oggi al domani; la sua visione del futuro era ridotta. Il suo volto era schiacciato contro il muro del presente, ma il passato era ancora lì, alle sue spalle. Era quello il territorio a cui sentiva di appartenere: alla valle dorata del tempo precedente il tumore. Ma soprattutto, era nel passato che spesso pensava di essere.
Non si trattava di un nostalgico adattarsi del pensiero sul passato. A volte si confondeva al punto di credere che nulla fosse cambiato. Sua moglie passerà a prenderlo. Passerà. Sarà qui fra poco. Andranno insieme a prendere i bambini a scuola. Andranno a casa. Il passato era come uno di quei motivetti pubblicitari che trasmettono alla radio; non un gran che come suono e melodia, ma ormai era nella sua testa e non lo lasciava in pace. Poi arrivò la depressione, e in uno dei suoi abissi neri si tolse la vita. Che relazione aveva Robert-dopo-l’operazione con i suoi sé precedenti? Qual era il suo sé ‘reale’? Qual era la sua identità?
Occorre una certa presenza di spirito per mettere fine alla propria vita. Il suicidio può essere il frutto amaro della mancanza di prospettive e della disperazione, ma è anche il punto di arrivo di un processo decisorio. Sembra che ci sia un ‘lasciarsi andare’ – un’accettazione dell’idea della morte – che induce lucidità di pensiero e serenità di spirito. Coloro che sono stati vicini a un suicida spesso riferiscono che nelle ultime ore o negli ultimi giorni la persona sembrava più felice e più tranquila del solito. C’è qualcosa che ho letto – non riesco a ricordare dove – sulle cause di suicidio; parlava di come esse non siano sempre ovvie e prevedibili; e poi diceva che se uno è in un particolare stato mentale, non occorre molto per risolversi: basta un’osservazione innocente interpretata male, un gesto frainteso.
La storia di Lorenzo è la descrizione, con qualche coloritura, di un caso reale. Ho giocato un po’ con qualche informazione biografica e, ovviamente, il nome del paziente non è Lorenzo; i dettagli clinici, tuttavia, sono essenzialmente quelli. Quest’uomo lasciò davvero la sua famiglia sull’onda di un impulso seguito a diversi episodi di comportamento insolitamente eccentrico (caratterizzato, fra l’altro, da furtarelli e gite improvvisate in città di mare e altri luoghi). Spese davvero somme di denaro che poteva a malapena permettersi per l’acquisto di beni di lusso come strumenti musicali (che non sapeva suonare) e abiti costosi (che poi avrebbe – o non avrebbe – indossato).
Anche lui era un fan di Jimi Hendrix. Una grande immagine iconica del musicista guardava dalla parete della sua camera nell’unità di riabilitazione. Hendrix, almeno, rimase una costante della sua vita. Se poi egli abbia davvero dialogato con lo specchio nel modo che descrivo all’inizio e alla fine della storia, non ne ho proprio idea. Quello ce l’ho messo io. Forse, da qualche parte, avevo in mente l’immagine di Jekyll in piedi davanti allo specchio che osserva la propria trasformazione in Hyde – e poi, alla fine, spogliato di un’anima, spogliato dell’immagine riflessa, forse Lorenzo era Dracula. Non lo so. Mi è venuto in mente così. Dopo l’operazione quell’uomo si aspettava davvero di tornare in seno alla sua famiglia, ignorando che essa si era ormai trasferita da tempo.
Lorenzo attuò due tentativi di suicidio falliti dopo la dimissione dal centro di riabilitazione e al terzo infine andò a segno. Fortunato al terzo colpo. Ho questa inutile immagine di Lorenzo che si impicca mentre Hendrix canta Voodoo Child nel sottofondo: “And if I don’t meet you no more in this world / I’ll meet you in the next one. / And don’t be late…”
Non accadde così.
Di Andrea Valitutti
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