Estate significa caldo, gelati, angurie, e soprattutto viaggi e vacanze: due elementi tanto latori di gioia per chi se li può permettere, quanto insospettabilmente dannosi per l’ambiente.
Death by tourism: eloquente espressione di conio recente che descrive l’enorme impatto del turismo in un’area geografica quando il numero dei villeggianti supera di molto quello dei residenti. Non serve allontanarsi molto per appurare come la crescita di questo fenomeno stia inesorabilmente andando a distruggere un numero sempre maggiore di siti di patrimonio culturale.
Ad ogni modo, per avere chiara la gravità di una tendenza è essenziale avere dei numeri da elaborare: secondo una recente analisi a tutto tondo dell’inquinamento prodotto viaggiando, l’80% dei voli internazionali avviene per scopi turistici, che nella maggior parte dei casi vengono perseguiti dagli occidentali. Nonostante l’evidente disparità economica tra chi può permettersi il lusso di volare e chi non, il dato più allarmante evidenziato dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) è che questi viaggi internazionali producono il 2% delle emissioni di CO2 nell’atmosfera.
Nella miriade di fattori che contribuiscono negativamente al fenomeno dell’inquinamento estivo particolarmente sorprendente è la scelta dell’alloggio: prenotare un soggiorno in hotel anziché in un B&B si traduce in una media di 6,9 kg di CO2 per notte. Il settore alberghiero, dunque, rappresenta l’1% delle emissioni di biossido di carbonio globali.
Ultimo ma non per rilevanza viene il numero di immondizia prodotta in una sola estate dall’industria turistica, che va a toccare il 14% di tutti i rifiuti solidi globali.
In questo scenario complesso e traboccante di contraddizioni non solo i governi e le multinazionali sono chiamate ad attivarsi, ma anche i singoli individui: facciamo sì che quel bel paesaggio immortalato in vacanza non si trasformi nel giro di un anno nell’ultimo ricordo sbiadito di un luogo che non esiste più.
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