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Soundtrack da ascoltare durante la lettura: “Learn to fly” – Foo Fighters
In una lunga chiacchierata con Andrea Valitutti, socio fondatore di Insight Parkour, ci spingeremo contro l’azzurro di un cielo polveroso. Ed ecco una manciata di adolescenti che si lancia oltre un muro martoriato dai segni delle armi da fuoco. Un paio di piedi si poggiano precari sugli architravi di un edificio fatiscente, per poi spiccare il volo in una nuova piroetta.
I’m looking to the sky to save me
Looking for a sign of life
Looking for something to help me burn out bright
Mozzano il fiato le immagini di One More Jump – il film documentario del 2019 di Emanuele Gerosa.
È nella spericolatezza dei balzi che questi ragazzini scoprono la salvezza di potersi muovere fluidamente in una vita irregimentata. Una spericolatezza incomprensibile agli estimatori della compostezza, dei piedi saldamente ancorati a terra.
È la disciplina del Parkour: l’arte di superare ostacoli e barriere fisiche attraverso movimenti acrobatici e salti coreografici.
Come forse nessun altro, questo sport è il prodotto del tessuto urbano, ma non quello della città intesa come centro: quello della periferia nel suo senso più ampio.
Arriva dalle banlieues parigine e spopola tra gli anni ’90 e i primi 2000. È nel 2005 che nasce il Gaza Parkour Team, un collettivo di giovanissimi che ripongono in questa disciplina la loro ambizione. La pellicola documentaria racconta dei loro sogni fatti di gare con team internazionali, dei loro allenamenti che ogni giorno sfidano le restrizioni, dei campi da gioco inventati tra le rovine delle abitazioni, nei campi profughi.
Svago, una parola impronunciabile, inimmaginabile in un territorio come questo, ma la cui assenza sottrae vita all’esistenza non meno di qualunque altra privazione.
Nell’imprudenza di un’acrobazia, c’è un brivido che squarcia l’anestesia della pura sopravvivenza; c’è una risata lunga il tempo di un’orbita nella polvere.
Check point, valichi chiusi: lungo i quarantadue chilometri della Striscia di Gaza, una brutale disciplina urbanistica estende il campo militare al tessuto urbano.
Lo sguardo non incontra che barriere al suo dispiegarsi; l’orizzonte è chiuso.
Il Parkour è per i ragazzi palestinesi la possibilità di staccarsi da terra, di conservare la propria possibilità di alzare lo sguardo e di più, di andare oltre, volteggiare sui palazzi martoriati, riappropriarsi dello spazio.
Make my way back home when I learn to fly high
Di Parkour abbiamo chiacchierato con Andrea Valitutti, socio fondatore di Insight Parkour, associazione nata a fine 2017 dall’idea di cinque ragazzi appassionati, che hanno voluto dar vita alla loro crew. L’associazione è registrata ufficialmente presso il CONI dal 2018, che ha da pochi anni riconosciuto a pieno titolo il Parkour come Sport.
Il Parkour, nella sua definizione più essenziale, consiste nell’abilità di compiere un percorso da un punto A ad un punto B con maggior fluidità, originalità, velocità ed efficienza possibili.
Ma, ci dice Andrea che, se volessimo tentare una definizione “emotiva” del Parkour, potremmo affidarci alla parola danza. Ha molto a che fare con la performance, ma soprattutto con la creatività.
L’attitudine a costruire un percorso mentale che non segua le strade prestabilite abitua a rompere la rigidità degli schemi in qualunque ambito essi si presentino. È la rigidità del pensiero, prospettica, la prima barriera a dover essere sorvolata.
Andrea Valitutti, oltre ad insegnare Parkour a giovani e meno giovani, è dottore in Neuroscienze. Proprio sul Parkour ha indirizzato alcune ricerche scientifiche che dimostrano come questa disciplina abbia concrete ripercussioni al livello di neuroplasticità. Ovvero, se qualunque sport comporta un generale miglioramento delle connessioni cerebrali da un punto di vista motorio, il Parkour ha altresì un effetto di miglioramento prospettico. Riesce, cioè, a potenziare la creatività individuale.
Individuale è il modo in cui, al livello meramente pratico, il Parkour si svolge; perciò, chiedo ad Andrea, qual è il nesso tra il singolo e la crew?
Sotto l’aspetto relazionale, il Parkour secondo Andrea è interpretabile come interindividuale. Vale a dire che sei tu, solo, a dover saltare l’ostacolo, ma le persone che hai accanto hanno un ruolo fondamentale. Non solo come supporto, ma come creatori e depositari di uno spirito di condivisione che va oltre la semplice costituzione di una squadra.
Dicevamo, Parkour come rottura del percorso prefissato, Parkour come immaginazione, ma, prima ancora, Parkour come strada.
È questo l’elemento da cui parte e a cui tende sempre. Gli allenamenti, seppur implementati nelle fasi iniziali da supporti ed elementi protettivi “artificiali”, non possono prescindere dall’impalcatura urbana, che resta il campo di gioco privilegiato di questa meravigliosa gara… di immaginazione.
Ringrazio Andrea, che prima di chiudere mi svela però questo motto:
“Se hai paura di cadere, cadi perché hai paura.”
Written by: Arianna Cerone
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