Soundtrack da ascoltare durante la lettura: “Luck Down” – Cold War Kids
Stiamo parlando di un “gigante”, le cui orme, nel passato, nel presente e nel futuro della storia del cinema sono così pesanti da essere difficilmente identificabili con quelle di un essere umano normale. Il suo stile di vita, la sua opera, infatti, hanno così poco in comune con le “carriere” e soprattutto col successo degli altri cineasti, degli altri artisti, degli altri uomini del suo tempo. Un tempo che con i suoi passi pesanti ha travolto, invece che percorso, la storia dell’arte. A tutto tondo. Perché, per Orson Welles, artista era colui che sapeva narrare storie, non importa quale tecnica usasse. E non c’è argomento, forma narrativa che non abbia indagato o, voluto indagare, con alterne fortune. Orson Welles è un genio, ma più odiato che amato.
Basti leggere i suoi necrologi. Alla sua scomparsa, avvenuta il 10 ottobre 1985, i giornali d’Europa e d’America si dividono. Elogi sulla sulla versatilità dell’artista, gli uni; considerazioni sull’avventurismo della sua carriera, con accezione ovviamente negativa, gli altri. Nemo propheta in patria (nessuno è profeta nella sua patria), si direbbe. Niente di più vero. Avventuriero lo è sempre stato, sin dagli esordi. A Dublino, dove, giovanissimo, si reca per intraprendere la carriera di pittore, rimane senza soldi. Si presenta a teatro spacciandosi per un celebre attore di New York. Gli credono dopo un solo provino. Il suo potere affabulatorio, da illusionista, è, infatti, l’altra grande dote riconoscibile in ogni suo film. Così come lo sperimentalismo, che inserito in un “system” ben rodato e poco incline ai rischi del cinema d’autore, quasi mai ha giocato a suo favore.
Citizen Kane
Infatti, non si può dire che la sua carriera sia tutta rose e fiori. È costantemente segnata da tentativi fallimentari, polemiche e difficoltà. A partire dal suo più grande successo, Quarto potere. Questo film è un simbolo, non solo per la storia del cinema, perché segna il passaggio di stile narrativo dall’epoca classica di Hollywood all’età moderna, ma, soprattutto, nella storia personale di Orson Welles. Di Citizen Kane, questo il titolo originale, si è detto tutto. Il film, forse, più discusso della storia del cinema. Per questo noi oggi non ne parleremo. Anche perché di Quarto Potere, recentemente ha trattato la nostra Sara Claro, centrandone il nucleo essenziale.
A noi basti sapere che questo film segna lo spartiacque nella vita e nella carriera di Orson Welles. Ma non senza conflitti. Dopo il putiferio mediatico scatenato dall’adattamento radiofonico della Guerra dei mondi, di H.G.Wells, la casa di produzione RKO Pictures, lo scrittura per tre film. Welles, capisce subito che “il Cinema era la cosa da fare in quel momento”. Per di più, lo Studio gli propone completa autonomia artistica, una cosa rarissima nel panorama produttivo hollywoodiano, tanto che non si ripeterà mai più, per nessuno. E a ragione. Una lezione involontaria al cinema. Welles propose tre progetti, ne furono bocciati cinque. Dopo alcuni compromessi di budget, viene alla luce Quarto Potere che mai risarcirà la casa di produzione per i soldi spesi. Questo film decreta la fortuna di Welles. Ma per andare più a fondo bisogna considerare l’altro carattere distintivo della sua vita artistica.
La sfortuna
Ho avuto più fortuna di chiunque altro. Certo, sono stato anche scalognato più di chiunque altro, nella storia del cinema, ma ciò è nell’ordine delle cose. Dovevo pagare il fatto d’aver avuto, sempre nella storia del cinema, la più grande fortuna…
Orson Welles
È molto comodo citare il British Film Institute, che lo ha eletto il miglior regista di tutti i tempi nel 2002; dire che l’American Film Institute lo mette tra le prime sedici grandi star. Ma se vogliamo raccontare Orson Welles artista, la sua personalità, assaggiarne la curiosità vorace, la sua voglia di scoprire tutto quello che c’era da sapere, tecniche e stili, indagare la bulimia con cui si approcciava ad ogni progetto, dobbiamo senz’altro considerare le costanti difficoltà che ha incontrato in ogni sua mossa, e il giudizio che, di lui, avevano i suoi contemporanei. Di Welles bisogna celebrare il suo atteggiamento verso il fallimento.
Ogni crisi è per lui spunto di ricerca, come se ogni incidente di percorso inneschi un meccanismo per mezzo del quale Welles arriva ad un punto di arrivo successivo, un upgrade del suo essere artista. Infatti, da Quarto Potere in poi si ha una lunga serie di insuccessi, di botteghino e critica che gli fanno maturare una cattiva fama produttiva a Hollywood e lo conducono a quello che sarà il capolavoro del flop, la seconda pietra miliare della sua carriera, e ne decreterà la rinascita successiva.
Otello (1952)
Venezia. Orson Welles (Otello) è innamoratissimo di Lea Padovani (Desdemona) che, in pubblico, accetta il corteggiamento, ma che in privato è l’amante di Giorgio Papi (direttore di produzione).
Non è la trama del film, come sembrerebbe. Sono le prime mosse di un progetto che sarà un mostro e un’ossessione del regista per tre anni, un percorso nato sotto una cattiva stella e che neanche la vittoria del Gran Prix du Festival di Cannes (l’allora Palma d’Oro), riuscirà a cambiare di segno. Ci riuscirà da solo. Da bravo manipolatore trasformerà questa catastrofe produttiva in idee per opere successive, riuscendo a trovare il successo nella disfatta. Ma andiamo con ordine.
Venezia
Orson Welles è letteralmente fuggito dagli Stati Uniti per problemi con il fisco. 320 mila dollari di debiti a seguito dell’insuccesso teatrale de Il giro del mondo in ottanta giorni. Il fisco se ne infischia delle perdite e pretende il pagamento delle tasse. In giro per l’Europa, Welles trova un finanziamento risicato da un produttore, che conoscendo la cattiva fama di spendaccione e procrastinatore di Welles, gli impone di terminare le riprese in ventuno giorni. Welles ha una sincope, dati i suoi standard produttivi, ma ci riesce. Il progetto è il Macbeth (opera che aveva già, in giovinezza proposto a teatro in una versione Voodoo ad Harlem, il suo primo grande successo di pubblico). Rimedia costumi di scarto da altre produzioni, si arrangia con le location, trasforma attori poco all’altezza in personaggi credibili grazie a prove estenuanti. Inventa il low budget. Arriva, peraltro, a grandi suggestioni stilistiche che confermano la sua padronanza assoluta della tecnica cinematografica. Il film arriva al festival di Venezia, e Orson Wells è convinto di poter vincere. Altro punto del suo carattere: non intraprende un progetto se non è convinto del suo valore. Sfortuna vuole che in concorso ci sia con Amleto, Lawrence Olivier che la nostra critica, letteralmente, venera.
È il 1948
La critica italiana di quegli anni ha un ruolo fondamentale. Schierata politicamente, con una conoscenza sicuramente poco profonda delle opere del regista, attacca costantemente Welles, considerato l’anello debole della macchina produttiva capitalistica del cinema americano. I suoi detrattori, tanti, sono tutti in giuria quell’anno al festival. In più si aggiunge il divorzio da Rita Hayworth e la successiva liaison con l’attrice Lea Padovani. Non è un clima facile. L’ultimo giorno di competizione Welles ritira la pellicola dal concorso.
Un ambiente ostile
Isolato, attaccato da diversi fronti, il regista si butta a capofitto sul lavoro. Trova un finanziatore, Michele Scalera, e subito parte la produzione di Otello. Altrettanto subito iniziano i problemi, prima di tutto economici. Infatti, Scalera entra subito in conflitto con Welles e limita i finanziamenti. Il regista è costretto a fondare una società di produzione improvvisata e ad andare lui stesso alla ricerca di denaro. Per questo motivo, in quegli anni recita in diversi film con buon successo commerciale (ricordiamoci che Orson Welles resta un grandissimo attore). I proventi di queste partecipazioni confluiscono tutti nella realizzazione di Otello. Ma ai problemi economici si aggiungono problemi di altra varia natura.
Sul set il clima è invivibile. Le continue scenate di gelosia di Orson Welles nei confronti di Lea Padovani, la scoperta della relazione che l’attrice aveva con Giorgio Papi, che Welles credeva un amico, arrestano a fasi alterne le riprese, fino a decretare la rottura definitiva con l’attrice principale (ma non con il direttore di produzione) e uno stravolgimento di cast. Di tutto il cast, perché la discontinuità e l’incertezza del lavoro, il ferreo controllo che il regista pretendeva di avere su tutte le fasi di lavorazione, costringono gran parte degli attori e delle maestranze ad abbandonare il progetto. Un nuovo finanziatore franco-algerino porta nuove risorse, nuovo cast e nuova location. Il Marocco. ll film dopo tre anni, finalmente termina.
Èil 1951
L’Otello viene stroncato dalla critica alle prima di Roma e Milano. Viene ignorato dal pubblico.Resta nei cinema una sola settimana. La Scalera Film fallisce. Vince invece, con stupore e orrore della critica italiana, a Cannes, nel 1952.
Le tante difficoltà non riescono a intaccare l’integrità e la qualità dell’opera. I drammi privati di Welles convergono nel dramma del personaggio. I problemi produttivi costringono il regista a scelte e soluzioni brillanti e innovative (penso alla scena dell’assassinio di Roderigo avvenuto in un bagno turco marocchino solo perché non erano arrivati i costumi dall’Italia). Nel montaggio ciò avviene in special modo. È una fase, l’editing, che Welles ama al punto di occuparsene personalmente, tanto lo considera fondamentale. Qui il regista dà prova di aver sempre avuto una salda visione di insieme. Il film sembra traballare costantemente, senza mai però cadere. Il ritmo corrisponde esattamente al conflitto psicologico dei personaggi. Ci porta dentro la loro storia.
L’illusionista
È questo il talento illusorio di Orson Welles. Un Mago che ci fa credere una cosa per poi mostrare una natura diversa. Entriamo in una porta di Venezia e usciamo in un cortile marocchino con disinvoltura, fluidamente. Orson Welles è ben consapevole di essere un “mago”. Lui stesso ci propone questa figura, sorridendo, descrivendoci l’avventura di Otello (nel documentario Filming Othello, 1978) come normale prassi nel girare un suo film. Un solo rimpianto ha di questo progetto. Di non averlo potuto esplorare di più. Di non averlo potuto sviscerare abbastanza. Ne parla al condizionale, come un futuro potenziale. Un non finito, come, del resto, molta della sua produzione successiva, e come egli stesso considera la propria esistenza.
La morte lo coglie al lavoro alla sua macchina da scrivere, come nelle leggende, il 10 ottobre 1985. E noi lo salutiamo come lui saluta il suo Otello, nel suo documentario.
Soundtrack consigliata per la lettura "Long, Long Time Ago - Javier Navarrete" Nato nel 1964 a Guadalajara, in Messico, Gulliermo del Toro compie oggi 56 anni. Regista poliedrico e pluri-premiato, iniziò la sua carriera come make-up artist e disegnatore prima di avviare le sue produzioni con le sue compagnie Necropia e Tequila Gang. Dalle fiabe all'horror Il suo tratto distintivo è sicuramente il tocco dark dei suoi mondi fiabeschi. La […]
Bravo Andrea, mi ha piaciusto molto e ho imparato di piú su questo mostro de la storia del cinema. Scritto di un modo cativante e chiaro, ti riporta vicino a questo artista per lo connosceri meglio. Bello lavoro.
Gonçalo Viana on 13 Ottobre 2020
Bravo Andrea, mi ha piaciusto molto e ho imparato di piú su questo mostro de la storia del cinema. Scritto di un modo cativante e chiaro, ti riporta vicino a questo artista per lo connosceri meglio. Bello lavoro.