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Prima ancora di ritrovarli stampati sul libro di storia dell’arte, abbiamo imparato a conoscerli come “i fascisti, gli esaltati, i violenti”. La loro arte è più veloce delle auto a ¾ di CV che guidano; la loro pittura aggressiva, violenta come le risse che promuovono di fronte ai locali; la loro mente un palco, lungo cui gli attori, stringendo lunghi fucili e indossando maglie di diverso colore, si fanno la guerra: unica igiene del mondo. Si chiamano futuristi perché il loro pennello è già lì, nel futuro.
“Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità.” – massima n. 4 del Manifesto del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti
Così recita il Manifesto del Futurismo firmato da Marinetti – poeta, scrittore, drammaturgo e militare italiano – che debutta in forma definitiva nel 1909 sul quotidiano francese Le Figaro. Dopo anni di dogmatismi accademici, forme sempre uguali e un’estenuante esaltazione del genio, ecco che l’avvento del nuovo secolo delinea un punto di rottura. L’artista non è più seduto comodo a corte, su una poltrona ricamata e con in mano un calice di vino rosè. Si ritrova, piuttosto, con le scarpe pregne del fango delle strade e l’aureola stracciata sull’asfalto. Ora che sono fuori dai confini, i colori, le figure e le tele esplodono in un continuo movimento di frammenti sparsi e non esiste critico in grado di giudicarli.
Il futurismo è una parabola che si risolve negli atteggiamenti radicali, talvolta aggressivi. Bisogna distruggere le biblioteche, i musei e le accademie per dimenticare l’atrofia della storia. Le loro opere, al termine del ciclo, sarebbero dovute esser gettate al rogo per riscarsi le mani. Chi glielo va a dire che si trovano ora nel peggior luogo a cui aspiravano? Appese ad un chiodo dentro un polveroso museo. Vediamone due che hanno fatto la storia!
Umberto Boccioni è una delle figure più influenti e radicali non solo nel versante futurista, ma nella storia dell’arte, grazie alla sua sperimentazione pittorica e scultorea. La sua sensibilità nel cogliere la natura ribelle delle cose, lo ha definito come uno degli artisti moderni più tormentati e drammatici del movimento. Effettivamente i suoi quadri sono piuttosto drama-queen vibe. Nel 1912 pubblica Manifesto tecnico della scultura futurista e collabora con altri artisti per la stesura del Manifesto tecnico dei pittori futuristi. Tra le mille opere che potremmo prendere in analisi, noi del YCB abbiamo selezionato quella che ci appare più iconica: La città che sale.
Un olio su tela ancora ben saldo alla tecnica del divisionismo, tanto cara al neoimpressionismo – e per fortuna che ripudiavano le correnti ottocentesche! -. In primo piano un cavallo rosso che tenta di svincolarsi da delle briglie, nel mentre che degli operai tentano di contenere la sua furia. Sullo sfondo le impalcature dei palazzi in costruzione, l’edificazione della modernità. Tutto quello che riveste lo strato esterno sembra quasi risucchiato dal dinamismo del cavallo che, date le pennellate e i colori scelti, sembra prendere fuoco. Nulla è statico, tutto diviene e ritroviamo gli elementi del progresso industriale esaltati dal trend.
Giacomo Balla fu uno probabilmente l’artista più eccentrico e fuori dalle righe nello scenario futurista, tant’è che il suo genio, oltre alla tela, si è manifestato anche attraverso il design, la cinematografia e la musica. Nel 1915 firmò con Depero il Manifesto della ricostruzione futurista dell’Universo e, dati i suoi stretti rapporti con Mussolini – al quale oltretutto regalò una scultura rappresentante la sua testa -, venne nominato come l’artista fascista.
“La semplicità è alla base della bellezza” – Giacomo Balla
Ciò a testimoniare il suo impianto fotografico nella rappresentazione pittorica, caratterizzata da pennellate divisioniste. Utilizzò anche la tecnica del puntinismo e la definitiva fotodinamica. L’opera più famosa che tendenzialmente i professori d’arte schiaffeggiano in faccia agli studenti è “Dinamismo di un cane al guinzaglio”. Ma, dato che noi andiamo ben oltre, vi presentiamo un’altra tela: “Lampada ad arco”. Una lampada ricopre la porzione maggiore dello spazio e dal vetro della lampadina si irradia l’intensa luce che, delimitata da un perimetro irregolare, ricopre una Luna a falce. È chiaro l’intento di voler esaltare l’elettricità – tanto cara al futurismo –, romanticizzandola un po’, e la più ampia luminosità dell’oggetto industriale rispetto a quella naturale della Luna.
Amati o odiati poco importa. A cavallo del suo motociclo, il futurismo, ha sterrato la strada alle avanguardie successive, formando le menti ad avere un occhio diverso di fronte a una tela scarabocchiata. È proprio qui che l’arte contemporanea affonda le radici ed è proprio qui che l’artista è riuscito a svincolarsi dalle redini che lo tenevano legato al gusto classico. Ora che abbiamo auto più veloci, che affrontiamo la Terza Guerra Mondiale e che il nostro sguardo è rivolto alle innovazioni tecnologiche, non possiamo non considerarci figli del futuro.
Written by: Laura Cervelli
Arte esame di maturità fascismo futurismo officina dell'arte
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