Soundtrack da ascoltare durante la lettura: “Fly me to the moon” Frank Sinatra
Era il 20 luglio del 1969 quando Neil Armstrong, dopo aver brillantemente gestito con l’aiuto di tutto lo staff un imprevisto ed aver allunato con il modulo Eagle nel Mare della tranquillità in un punto diverso da quello pianificato per la missione, scendendo gli scalini del LEM pronunciò la storica frase “That’s one small step for a man, one giant leap for mankind” (Questo è un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo per l’umanità). Lo seguì subito dopo il compagno Buzz Aldrin, ma quanti di voi ricordano il nome del terzo uomo di quella missione? Sì, esatto, tutte le missioni Apollo erano composte da un equipaggio di tre persone e, per la missione Apollo 11, il terzo uomo era Michael Collins, nato in via Tevere a Roma. Collins è sempre passato in secondo piano, ma a detta di molti fu quello ad avere più coraggio: mentre gli altri due uomini sul suolo lunare potevano contare l’uno sull’altro e sono stati sempre in contatto con la base di Houston, lui rimase solo sul modulo di comando Columbia, ad orbitare intorno alla luna, rimanendo isolato per diverso tempo durante il tratto di orbita dietro la faccia nascosta del nostro satellite naturale a contemplare il cosmo.
La ricerca scientifica non è stato il vero motivo che ha spinto l’uomo ad andare sulla luna: la ragione che ha alimentato la corsa è stata la voglia degli USA di vincere sull’allora URSS la guerra fredda. Infatti il programma Apollo fu interrotto dopo la missione Apollo 17 del 1972 dopo solo sei anni di missioni su suolo lunare; la versione ufficiale addusse motivi economici, ma si ritiene che una volta dimostrata la supremazia tecnologica spaziale gli States abbiano deciso di destinare i fondi ad altre cose. Chissà a quale punto della nostra evoluzione saremmo ora se, invece di combattere guerre, avessimo unito gli sforzi così come abbiamo iniziato a fare con la stazione spaziale orbitante ISS.
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