La nostra vita ormai è costantemente e perennemente online e, chi più chi meno, siamo tutti dipendenti dalle addictive technologies, ovvero dai molteplici strumenti informatici di cui sembra non si possa fare più a meno. Questi servizi sono solitamente gratuiti, anche se ormai è risaputo che “se ti offrono qualcosa gratis vuol dire che la merce sei tu”.
Questo è l’esempio dello scandalo Cambridge Analytica, che è stata accusata di aver sfruttato i dati raccolti da Facebook per profilare illegalmente gli utenti, estrapolandone interessi e orientamenti al fine di influenzarli politicamente tramite inserzioni pubblicitarie e visualizzazione di contenuti ad hoc, arrivando a pilotare così le ultime elezioni negli Stati Uniti e il referendum sulla Brexit. La storia adesso è diventata una docu-fiction su Netflix, dal nome The Great Hack.
La serie affronta in maniera romanzata tutta la vicenda e si focalizza solo su alcuni dei personaggi chiave di questo scandalo: ripropone, infatti, una chiave di lettura abbastanza generica, mancando quindi probabilmente il bersaglio vero, e risultando meno efficace e inquietante di quanto gli accadimenti suggerirebbero.
Un aspetto però che andrebbe analizzato in maniera più approfondita, è il fatto che questo “furto” di dati non è stato inconsapevole: siamo stati, infatti, tutti noi utenti a fornire i dati. E non ci si può neanche appellare al diritto alla Privacy, poiché sono i consumatori in primis ad essere pigri e disattenti, e non hanno la premura di comprendere cosa significa realmente “acconsentire alla politica sul trattamento dei dati personali”.
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