L’evoluzione tecnologica ha modificato in maniera drastica il nostro modo di ascoltare la musica, passando dai tanto amati vinili e CD al mondo dello streaming attraverso piattaforme come Spotify. Senza ombra di dubbio, ciò ha reso l’industria musicale molto più eco-friendly, con la scomparsa delle pile di CD sugli scaffali… o almeno questo è ciò che noi pensiamo.
Di ben altro avviso sono Sharon George e Deirdre McKay della Keele University, che in un lungo articolo comparso sul sito della BBC riferiscono come, secondo loro, lo streaming musicale in realtà inquini molto di più dei supporti “tradizionali”. Sotto accusa sono i “data center”, ovvero i luoghi fisici di raccolta di questa marea di informazioni che viaggiano in streaming. Da qualche parte i “cloud” dovranno pur poggiarsi, no?
Questi supporti consumano una quantità spaventosa di elettricità, alla quale va aggiunta quella dei dissipatori e degli impianti di raffreddamento, visto che l’energia elettrica corrisponde ad energia termica. A questo consumo dovremmo aggiungere anche quello dei router e di tutti gli strumenti per mandare online le canzoni.
Secondo i ricercatori, la somma di tutti questi fabbisogni creerebbe un inquinamento maggiore all’intero ciclo di produzione di un CD o di un vinile, che richiedono qualche ettogrammo di CO2 per la loro fabbricazione (0,5 kg per un vinile, 0,3-0,2 kg per un compact disc).
In realtà quello che i ricercatori non hanno calcolato è che, in genere, l’energia utilizzata nei data center proviene da fonti rinnovabili, e non da centrali a combustibile fossile. Perciò di fatto i data center restano ad impatto zero.
Quale sarà la verità? Difficile a dirsi, sicuramente però l’opinione pubblica si dividerà tra coloro i quali vogliono tutti i loro album all’interno di un semplice smartphone, e i nostalgici che ancora chiudono gli occhi e abbracciano la copertina del loro 33 giri, mentre ascoltano i brani che amano.
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