Scendo di casa tranquilla, non ho paura di come sono vestita.
Non posso ancora sapere di dovermi ricredere.

Più di 20.000 impiegate e impresari di Google lo scorso 1 novembre hanno lasciato i loro uffici in segno di protesta contro molestie e abusi sessuali sul posto di lavoro, mancanza di trasparenza e una parità di sesso inesistente, discriminante per le donne dell’azienda: ex e attuali dipendenti di 50 città diverse, circa il 75% degli uffici di tutto il mondo, si sono mobilitati alle 11:10 per la campagna Google Walkout For Real Change.
“Abbiamo gli occhi di molte aziende puntati ora. Siamo sempre stati una società all’avanguardia, quindi se non ci mobilitiamo noi, nessun altro lo farà.”
Le significative parole della newyorkese Tanuja Gupta rendono chiara la drammatica situazione: se non ora, quando?
Le sempre più frequenti proteste sono dovute ai continui abusi di potere, discriminazioni sessiste e razziste: si tratta di una realtà che troppo spesso fingiamo di non vedere o semplicemente evitiamo di accettare.
“I 90 milioni di dollari dati ad Andy Rubin rappresentano solo uno dei mille casi che si verificano giornalmente e rendono chiara la situazione attuale in cui ci troviamo: abbiamo bisogno di un cambiamento strutturale vero e paritario, non un semplice compenso per calmare le acque.”

Andy Rubin, il creatore del software mobile Android, nonostante le accuse di condotta inappropriata, è riuscito sempre a mantenere un consistente ruolo di potere sino alle sue recenti dimissioni, che sono state accompagnate da ben 90 milioni di dollari; l’informatico sarebbe solo uno dei tre dirigenti i cui abusi sessuali sono stati coperti dall’azienda “modello” del XXI secolo.
Risulta, quindi, sempre più agghiacciante leggere le parole di un’impiegata statunitense che durante il #GoogleWalkout ha raccontato la sua personale storia di molestia e abuso, purtroppo rimasta indifferente a gran parte del suo ambiente lavorativo: un collega l’ha presa da parte e chiesto di bere un drink insieme; questo è il suo ultimo ricordo della serata. È stata poi vista da altri mentre veniva trascinata da lui ‘in un posto più sicuro’, ma nessuno ha protestato o cercato di rivolgerle la parola.
La donna ha quindi chiesto di cambiare team con il quale lavorava per via di quanto accaduto, non ottenendo però alcun risultato:
“La prima cosa che il capo mi ha detto è stata quella di stare zitta, mi ha fatto capire che ero io il problema. Sono riuscita a proseguire con la mia squadra per altri tre mesi. Ogni giorno andavo a lavoro, piangevo in macchina per un’ora e affrontavo faccia a faccia quel molestatore, fino a quando ho dovuto mollare perché non ne potevo più.
Ho ottenuto molta empatia. È cambiato qualcosa? No, ho continuato a stare zitta. Mi hanno detto che Google avrebbe mantenuto il silenzio per me e perciò io dovevo mantenere il mio lontano dalla stampa, dai miei colleghi. Non dovevo assolutamente proferire parola. Ma ora non più.”
Questa storia è solo una delle tante raccontate alla manifestazione, perché, di fatto, Google:
“È famoso per la sua cultura, ma in realtà qui dentro non siamo neanche a conoscenza delle basi di rispetto e giustizia che appartengono ad ogni singolo individuo. – Claire Stapleton.

Lo scorso venerdì il CEO dell’azienda, Sundar Pichai, ha incontrato le organizzatrici della protesta, Claire Stapleton, Tanuja Gupta, Meredith Whittaker, Celie O’Neil-Hart, Stephanie Parker, Erica Anderson e Amr Gaber, per discutere riguardo i punti di cambiamento proposti dalle impiegate:
1) La fine dell’Arbitrato Forzato in caso di molestie e discriminazioni: dovrebbe valere per tutti i dipendenti attuali e futuri, insieme al diritto per ogni lavoratore di Google di portare un collega, rappresentante o sostenitore di loro scelta durante l’incontro con le HR (le cosiddette risorse umane, il personale che presta la propria attività lavorativa in un ente pubblico o privato) quando presenta una denuncia di molestia;
2) Un provvedimento per porre fine alla retribuzione caratterizzata da ingiustizie e disparità salariali: ad esempio, assicurandosi che ci siano donne di colore a tutti i livelli di organizzazione. Questo deve essere accompagnato da dati trasparenti sul divario retributivo di genere, razza ed etnia, sia per livello che per anni di esperienza nel settore, accessibili a tutti i dipendenti;
3) Una relazione sulla trasparenza delle molestie sessuali divulgata pubblicamente;
4) Un processo chiaro, uniforme, globalmente inclusivo per denunciare la cattiva condotta sessuale in modo sicuro e anonimo: nei processi odierni le prestazioni dei HR vengono valutate dal senior management e dai direttori, che inevitabilmente mettono gli interessi del management stesso davanti ai dipendenti che segnalano molestie e discriminazioni. Il processo migliorato dovrebbe anche essere accessibile a tutti: impiegati a tempo pieno, impiegati temporanei, venditori e appaltatori;
5) Un impegno ad ‘elevare’ il Chief Diversity Officer per rispondere direttamente all’Amministratore Delegato e formulare raccomandazioni direttamente al Consiglio di Amministrazione; e per nominare un rappresentante dei dipendenti nel consiglio di amministrazione: sia il CDO che il Rappresentante dei dipendenti dovrebbero aiutare a stanziare risorse permanenti e a proporne cambiamenti qualora gli obiettivi di equità non siano soddisfatti.
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Le proteste si sono volte nei seguenti paesi:
USA: WI, Miami, FL, Moncks Corner, SC, Mountain View, CA, New York, NY, Palo Alto, CA, Pittsburgh, PA, Playa Vista, CA, Portland, Oregon, Pryor, OK, Redwood City, CA, Reston, VA, San Bruno, CA, San Francisco, CA, San Jose, CA, Seattle, WA, South San Francisco, CA, Sunnyvale, CA, and Washington, D.C.
Australia: Sydney
India: Gurgaon
Giappone: Tokyo
Filippine: Manila
Singapore
Germania: Berlino, Amburgo
Irlanda: Dublino
Olanda: Amsterdam
Svezia: Stoccolma
Svizzera: Zurigo
Inghilterra: Londra
Mi ritrovo ad accelerare, inconsciamente.
Non so perché ma non lo avrei mai detto.
È vero che la prima volta non si dimentica tanto facilmente.
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