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Scienza e Tecnologia

L’azione

today29 Gennaio 2018

Background
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Nel luglio del 1982 i medici di pronto soccorso degli ospedali di San Jose, in California, rimasero sconcertati. Quattro pazienti, tra i 26 e i 42 anni, visitati di recente in quattro ospedali diversi, presentavano tutti un quadro clinico simile. Pur essendo coscienti, erano completamente immobili. Nessuno era in grado di parlare, la loro espressione facciale sembrava come congelata e mostravano una rigidità estrema a livello delle braccia. Era come se avessero guardato Medusa negli occhi e fossero stati tramutati in statue di pietra. I sintomi e il loro esordio non assomigliavano ad alcuna malattia nota. I medici sapevano di dover agire in fretta, ma senza alcuna diagnosi non potevano prescrivere alcun trattamento efficace. Domande poste agli amici e ai familiari dei pazienti rivelarono alcuni indizi. Due di loro erano fratelli, ma non conoscevano gli altri due. Tutti e quattro però facevano uso di eroina. Inoltre, i loro sintomi risultavano opposti a quelli che ci si aspetterebbe dopo l’assunzione di una grande dose di eroina, un potente depressivo del sistema nervoso centrale. Anziché mostrare la tipica flaccidità muscolare, questi pazienti erano rigidi. Nessuno ricordava di aver mai visto un caso di overdose da eroina simile a questo, tantomeno i sintomi assomigliavano a quelli legati ad altri narcotici spacciati sulle strade. Doveva trattarsi di una nuova sostanza. Questi sospetti vennero confermati da alcuni amici che avevano assunto dosi inferiori della stessa. Appena iniettata, questa eroina aveva prodotto inaspettatamente una sensazione di bruciore nel punto di iniezione, seguita da un rapido offuscamento della vista, da un gusto metallico in bocca e, più preoccupante, da uno spasmo muscolare quasi immediato a tutte le membra.
La TAC e la MRI non rivelarono alcuna anomalia nel cervello dei pazienti con rigidità o in quello di coloro che per loro fortuna avevano assunto una dose inferiore. Qualche giorno dopo, un neurologo dell’Università di Stanford, William Langston (1984), esaminò i pazienti. Rimase colpito nel riscontrare quanto i loro sintomi fossero simili a quelli presenti nei pazienti con morbo di Parkinson in stadio avanzato. Questa malattia è caratterizzata da rigidità muscolare, disordini della postura e acinesia, l’incapacità di produrre movimenti volontari.
Ogni aspetto delle condizioni dei pazienti combaciava con questo disturbo a eccezione della loro età e della rapida progressione. Il morbo di Parkinson insorge gradualmente e di rado si manifesta prima dei 45 anni da un punto di vista clinico. I soggetti che si erano iniettati quell’eroina avevano sviluppato in pochi giorni tutti i sintomi dello stadio avanzato della malattia di Parkinson. Langston sospettava che gli eroinomani si fossero iniettati una nuova droga sintetica venduta loro come eroina e che tale sostanza avesse innescato una comparsa acuta del morbo di Parkinson.
Questa diagnosi si rivelò corretta. Il morbo di Parkinson è causato dalla morte delle cellule nella ‘substantia nigra’, un nucleo del tronco encefalico che fa parte dei gangli della base. Queste cellule sono una delle fonti primarie della dopamina, un neurotrasmettitore. Langston non fu in grado di rivelare alcun danno strutturale tramite le scansioni TAC e MRI, ma studi successivi con la tomografia a emissione di positroni (PET) confermarono un ipometabolismo dopaminergico in tali pazienti. Comunque, l’interesse immediato riguardava il modo in cui trattare i tossicodipendenti. Langston adottò il trattamento utilizzato universalmente con il morbo di Parkinson: prescrisse alti dosaggi di L-dopa, un parente sintetico della dopamina che ha una grande efficacia nel compensare la mancanza di dopamina endogena. Appena Langston somministrò il farmaco ai soggetti che si erano iniettati la droga, questi mostrarono un’immediata risposta positiva. I loro muscoli si rilassarono e furono di nuovo in grado di muoversi, anche se in maniera limitata.
Seppur tragico per i pazienti coinvolti, questo episodio segno una svolta fondamentale nello studio del morbo di Parkinson. I ricercatori rintracciarono la droga contaminata ed eseguirono un’analisi chimica; risultò trattarsi di una sostanza fino ad allora sconosciuta, che in piccola parte assomigliava all’eroina ma strutturalmente simile alla meperidina, un oppioide sintetico che genera sensazioni simili all’eroina. Sulla base della struttura chimica, venne chiamata MPTP (1-methyl-4-phenyl-1,2,3,6-tetrahydropyridine). Test di laboratorio dimostrarono come la MPTP fosse selettivamente tossica per le cellule dopaminergiche, portando a un grande balzo avanti nella ricerca medica sui gangli della base e sui trattamenti del morbo di Parkinson. Prima della scoperta di tale sostanza, era molto difficile indurre parkinsonismi in specie diverse da quella umana. I primati non sviluppano il morbo di Parkinson in modo naturale, forse perché la loro prospettiva di vita è breve. Inoltre, la ‘substantia nigra’ è difficilmente accessibile con il tradizionale approccio dello studio di lesione, a causa della sua vicinanza a nuclei troncoencefalici vitali. Somministrando MPTP, i ricercatori sono ora in grado di distruggere la substantia nigra e creare animali parkinsoniani. Questi risultati hanno contribuito ad alimentare nuovi metodi di trattamento per il morbo di Parkinson.
La storia della MPTP offre un buon esempio di come le aberrazioni neurologiche possano chiarire i pattern complessi della connettività nelle strutture motorie del sistema nervoso centrale. Il nostro cervello, attraverso l’organizzazione del sistema motorio, produce movimenti coordinati e, a un livello più alto di tipo cognitivo, seleziona le azioni per raggiungere i nostri obiettivi.

Il Premio Nobel Charles Sherrington, un fisiologo britannico, ha scritto: “L’obiettivo della vita è un atto, non un pensiero”. Con questo manifesto, Sherrington ha cercato di enfatizzare il fatto che lo scopo finale di ogni pensiero è un’azione. Anche se le persone hanno bisogno di occuparsi della percezione, dell’attenzione, della memoria e dell’emozione, è l’agire, e non il meditare, ad aver permesso ai nostri antenati di sopravvivere e di riprodursi.
Gli scienziati che studiano la visione sostengono l’idea che oltre il 50% del cervello sia deputato a quest’unico sistema sensoriale, ma uno sciovinista del controllo motorio potrebbe ragionevolmente sostenere che oltre il 50% del cervello sia deputato al controllo dell’azione. Uno di questi sciovinisti autoproclamati, Daniel Wolpert (riecheggiando Charles Sherrington) si è spinto oltre, affermando che l’unica ragione per cui abbiamo un cervello è la possibilità di muoverci in modo adattivo. In accordo con tali affermazioni, potremmo parlare del 100% della superficie del cervello senza bisogno di considerare altri sistemi sensoriali o funzioni come la memoria e il linguaggio. È anche vero che un’area cerebrale possa essere coinvolta sia nella visione sia nel controllo motorio. Così come Shakespeare parlava di un uomo che recitava vari ruoli, una regione del cervello può occuparsi di varie funzioni. Percezione e azione sono intimamente interconnesse.
Ci si potrebbe aspettare una conoscenza molto avanzata del sistema motorio. Il prodotto di tale sistema può essere osservato direttamente dalle nostre azioni, a differenza di processi interni quali la percezione o la memoria. Tuttavia, rimangono ancora da comprendere molti aspetti delle funzioni motorie. Vi è un dibattito acceso riguardo a che cosa codifichi la corteccia motoria e come questo codice produca movimenti.

Di Andrea Valitutti

Written by: Redazione

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