Mercoledì 30 Ottobre si è tenuta a Palazzo del Seminario, nel pieno centro di Roma, la presentazione del libro “La scuola dei centennials” di Valentina Aprea, attuale membro della commissione cultura della Camera dei Deputati ed ex Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione.
Il libro, pubblicato a Ottobre da Egea Editore, offre un dettagliatissimo spaccato, ricco di dati, analisi e statistiche, presentato da chi la scuola l’ha vissuta dall’interno e da chi, da più di vent’anni, la scuola la pensa e la fa. Un’analisi tecnica che mette a nudo la scuola italiana, mostrandone nitidamente pregi e difetti. Il libro si sforza di compiere un’analisi empirica del reale (non della fantascuola), che tenta di reggersi solo ed esclusivamente sull’esperienza dell’autrice, fatta sia nelle aule scolastiche che in quelle istituzionali. L’operazione riesce esemplarmente quando l’oggetto di studio è il presente scolastico che ci circonda, descritto egregiamente in tutte le sue sfaccettature, ma con meno efficacia quando il centro dell’analisi si sposta sulla scuola di domani, dipinta con un ottimismo a dir poco eccessivo e con speculazioni evidentemente troppo azzardate.
La conferenza sulla presentazione del libro è stata arricchita dalla presenza e dall’intervento di molti rappresentanti del Governo e dell’attuale Commissione. Dall’Alternanza Scuola Lavoro alle nuove tecnologie, passando per la rivoluzione digitale, il dibattito si è consumato non solo sull’istruzione, ma su più temi trasversali aventi sempre e ovviamente come comun fattore le nuovissime generazioni (i cosiddetti “centennials”). Ovviamente i problemi sono venuti subito a galla ed è quindi emersa sin da subito nel dibattito, e ripetuta a più riprese (tesi centrale anche del libro), l’esigenza di una rivoluzione, ormai necessaria, del nostalgico sistema scolastico italiano, ancora troppo ancorato ad un modello di studio novecentesco non più compatibile con la realtà in cui ci troviamo a vivere.
La scuola di oggi
Il mondo di oggi è un mondo radicalmente cambiato rispetto al mondo di cent’anni fa. Questo lo si dà per certo. Eppure la scuola di oggi continua a guardare al passato. Messe a confronto, la scuola dove studiò il nonno di uno studente qualsiasi del presente, quella dove ha studiato suo figlio, e quella dove sta studiando suo nipote, incredibilmente non risultano lontane parenti ma bensì quasi gemelle. Figlie tutte e tre del modello scolastico gentiliano che continua ad essere validissimo, e che nonostante tutto riesce ancora allegramente e stoicamente a rimanere in vita, e che con tutta tranquillità tra poco spegnerà la bellezza di cento candeline. Che l’arretratezza della nostra impostazione scolastica sia un problema non è un mistero e la classe politica e le istituzioni da tempo invocano alla necessità di riformare la scuola pubblica italiana. Le maggiori criticità, emerse limpidamente sia durante la presentazione che nel libro, si hanno nell’incapacità della scuola di oggi a preparare i giovani al (nuovo) mondo del lavoro e nell’impostazione del nostro modello d’insegnamento: troppo dottrinale e antiquato e dunque incompatibile sia con la realtà in cui gli studenti vivono e interagiscono, molto più smart e diretta della loro scuola, sia con i modelli di studio dei nostri competitors globali, dove rispetto a noi l’utilizzo delle tecnologie a scopi didattici è molto più diffuso e l’insegnamento delle lingue straniere è molto più avanzato.
La proposta di V.A. per far fronte al primo problema è un potenziamento dell’ex Alternanza Scuola Lavoro (idea condivisa anche dal viceministro Anna Ascani). L’ASL teorizzata nel libro dispone di un numero elevato di ore scolastiche e segue il modello dello stage lavorativo che permetterebbe allo studente di entrare in contatto in maniera più diretta con il mondo del lavoro, e che permetterebbe alle aziende di “fiutare” nuovi possibili impiegati. “Studiare in azienda, lavorare a scuola”.
Riguardo alla seconda, grande criticità del nostro impianto scolastico invece, la situazione si dimostra molto più delicata. Secondo molti infatti riformare ex novo la struttura dell’insegnamento all’italiana significherebbe snaturarla. Da sempre il sistema d’insegnamento italiano è considerato ai vertici globali per completezza e profondità, e togliere queste peculiarità, semplicemente uniche nel loro genere, per rincorrere modelli di studio stranieri, più moderni ma meno sviluppati, rappresenterebbe un vero e proprio delitto. l’idea più accreditata è quella di introdurre l’utilizzo delle tecnologie nelle scuole, perché la loro carenza non è più ammissibile, senza sostituire però le vecchie forme d’insegnamento come libri e quaderni. Si andrebbe a creare un modello di studio integrativo, e non sostitutivo, in grado d’insegnare sì agli studenti a utilizzare le tecnologie in maniera “seria”, ma capace anche di mantenere quella tanto elogiata identità storica della nostra scuola invidiata e ricercata un po’ ovunque all’estero.
La scuola di domani
Insomma, è evidente come la scuola del futuro debba parlare un linguaggio senz’altro più innovativo e tecnologico in grado di preparare gli studenti al mondo – innovativo e tecnologico – che li aspetta. Linguaggio che però non deve dimenticarsi delle radici storico culturali della nostra istituzione scolastica. Ma qualsiasi congettura o ipotesi di riforma della scuola non può che passare per i docenti. Perché un’altra drammatica verità, spesso sottovalutata o ignorata, è che il gap anagrafico medio professore-studente in Italia è il più alto d’Europa. E come fare dunque ad insegnare ai ragazzi un linguaggio moderno quando i professori ne parlano uno vecchio? La questione più annosa, ineludibile e più urgente da affrontare è dunque l’aggiornamento della classe docente. Un professore non può preparare uno studente all’uso della tecnologia se non sa accendere un PC o se si ostina a insegnare con gessetto e cancellino, strumenti che, nonostante siano dotati di una certa poetica, non sono più lontanamente paragonabili con le potenzialità della LIM e dei programmi informatici. Anche l’incitatissimo superamento della cosiddetta lezione frontale, eredità ormai bigotta della scuola novecentesca, non può avvenire se il professore non è propenso al cambiamento. Spesso purtroppo infatti il professore rappresenta un impedimento al fine di cambiare le dinamiche d’insegnamento. Si pensi a quanti docenti continuano ad osteggiare gli alunni che decidono di passare parte dell’anno scolastico all’estero. Scelta ormai più dettata che autonoma per un Centennial che vuole mettersi in gioco.
Considerazioni empiriche
Per concludere, il raccapricciante panorama dell’edilizia scolastica italiana, ci impone a considerare secondario ogni tipo d’intervento non volto a riqualificare aule e soprattutto bagni. Non è possibile che uno studente debba studiare su banchi che hanno fatto una, due, tre guerre e poi che in caso di necessità debba usare dei servizi a dir poco inadeguati a un Paese del primo mondo. Sarebbe bello vedersi materializzare il futuro descritto nel libro: droni che volano per le classi, programmazione come materia di corso, e lezioni di arte fatte scannerizzando monumenti con il tablet in giro per la città. Eppure, non risulta difficile immaginare che un tipico studente di oggi, spinto da un pizzico di realismo, si limiti a desiderare un professore che faccia lezioni interattive, un bel banco e la carta igienica.
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