Durante la lettura si consiglia l’ascolto di: “Don’t stop me now” dei Queen.
Il vincitore del Premio Nobel per la Pace 2019 è Ahmed Abiy Ali, il neo premier etiope che in solo un anno ha rivoluzionato la geopolitica del corno d’Africa.
Una premiazione un po’ a sorpresa che ha visto l’etiope imporsi sulla quotatissima e stra-favorita Greta Thunberg (che oltretutto giocava anche in casa). Secondo molti la sua sarebbe stata una bella scintilla pronta a spegnersi al primo soffio. Eppure ormai, a un anno e mezzo dal suo insediamento, a dispetto degli scettici, possiamo annunciare che Abiy più che una semplice scintilla sia un faro lucentissimo non solo a livello nazionale e continentale, in un’Africa straziata dalle guerre, ma anche a livello globale. Una stupenda stella nella lunga notte dell’isolazionismo internazionale.
Il comitato ha deciso di premiarlo “per i suoi sforzi nel raggiungere la pace e la cooperazione internazionale”, ossia per esser riuscito in soli due mesi a fare ciò che i suoi predecessori non erano riusciti in 20 anni: porre fine alla guerra tra Eritrea e Etiopia.
Il conflitto, scoppiato nel 1998 e concluso nel 2000 con l’accordo di Algeri, vide imporsi l’Etiopia sul campo di battaglia, e l’Eritrea in quello internazionale. L’arbitrato internazionale assegnò infatti la regione contesa all’Eritrea, decisione mai accettata dagli etiopi. Motivo per cui, seppur virtualmente concluso, il conflitto sul piano formale non cessò, e le tensioni continuarono ad essere altissime, considerando che le truppe di Addis Abeba anche dopo l’accordo non lasciarono Badme, città al centro della contesa.
La svolta tanto attesa allo stallo ventennale è arrivata il 6 giugno dello scorso anno, quando Abiy ha annunciato (non senza malumori) la storica decisione di accettare l’accordo di Algeri. I primi segnali positivi erano arrivati sin dal suo discorso d’insediamento del 2 Aprile quando il neo premier aveva promesso il raggiungimento di un accordo con l’Eritrea che, nel mentre, sotto il comando del dittatore Afewerki, era tutt’altro che disposta a fare la prima mossa. Un piccolo passo indietro per l’Eritrea, un grande passo avanti per tutto il corno d’Africa insomma, che ora, sulle ali del giovanissimo Ali, vive una stagione di fioritura economica e di sviluppo a tratti quasi miracolosa, paragonabile alle vertiginose parabole di crescita delle potenze asiatiche.
La capacità di porre fine a un conflitto costato più di centomila vite è sicuramente il più grande merito del giovane leader etiope, per alcuni versi occidentalissimo (master in leadership trasformativa a Londra, cristiano e soprattutto fan di Micheal Jackson), e già di per sé giustificherebbe il Nobel, ma non è assolutamente l’unico.
Un leader carismatico, forse un po’ spavaldo, sicuramente sopra le righe. Diventato militare a 13 anni, è stato eletto dalla coalizione Eprdf, praticamente l’unica forza alle ultime elezioni della fragile democrazia etiope. Ha ereditato dalla vecchia amministrazione un paese con 105 milioni di abitanti, che da 15 anni cresce del 10% del PIL annuo e che ha visto la speranza di vita aumentare dai 40 anni del 1991 ai 65 di oggi. Tutto perfetto, verrebbe da pensare. Eppure l’Etiopia, come tutti i paesi in forte via di sviluppo, e soprattutto come tutti i paesi africani, presenta grandi difficoltà interne e grandissime instabilità sociali che negli ultimi anni hanno portato a picchi di totale caos e violenza. Il suo predecessore Desalegn aveva deciso di affrontare tali avversità con l’uso della forza. Solo tra oppositori politici e giornalisti, trentamila gli arrestati. Per non parlare delle torture a cui questi dissidenti venivano sottoposti una volta in carcere.
E forse è proprio considerando qual era il punto di partenza che si riesce a comprendere la forza e la grandezza di un uomo capace di fare del dialogo e del confronto democratico la sua cifra politica. Ricordiamoci che in Etiopia convivono 80 gruppi etnici, ognuno con le sue tradizioni e, soprattutto, non tutti dello stesso credo religioso. Motivo per cui i problemi più grandi vengono più dall’interno che dall’esterno, e Abiy è riuscito (per il momento) a sopravvivere a questo fuoco incrociato a colpi di riforme liberal-democratiche, proiettando l’Etiopia verso un futuro da grande. Tra le vittorie più importanti c’è senz’altro l’abolizione della censura e la liberazione di 60000 detenuti politici dalle carceri. Sul piano istituzionale invece è stato fondamentale il suo ruolo di mediatore nel conflitto in Sudan.
Quella di Abiy è stata una cavalcata esemplare che ha stupito il mondo intero. Maturata non senza passare anche attraverso momenti drammatici. Superati tutti in grande stile. Escludendo un tentativo di golpe sventato, il momento più critico del suo governo e forse il più incredibile si è consumato il 10 Ottobre dello scorso anno, quando un centinaio di militari armati si sono presentati sotto il palazzo presidenziale per protestare. Abiy, pur cosciente della gravità della situazione, decise di scendere da solo, senza scorta, ad affrontare faccia a faccia le milizie. Non rinunciando a quella sfrontatezza che lo caratterizza, il leader, in un atmosfera quasi surreale, non solo non andò nel panico, ma riuscì a stemperare gli animi sfidando i soldati a gara di flessioni. Una mossa forse imprudente, quasi hollywoodiana, ma che ci racconta la caratura di un leader unico nel suo genere.
Nella speranza che il sogno etiope non muoia tra i litigi del suo variegatissimo popolo, ma che anzi continui a incantarci e stupirci, non ci resta che fare il tifo per questo super leader fuori da ogni schema.
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