Ogni èra ha le sue metafore dominanti, lenti attraverso le quali osserviamo il mondo. L’Illuminismo utilizzava la fisica di Newton, la tarda età vittoriana la teoria dell’evoluzione. All’inizio del XX secolo la teoria della relatività di Einstein e la teoria dell’inconscio di Freud hanno permeato ogni cosa, dall’arte alla letteratura fino all’etica quotidiana. Alla fine del XX secolo è stato il turno del principio di indeterminazione di Heisenberg.
Oggi le metafore più importanti provengono dal mondo dei computer e della rete. Se gli uomini e le donne dell’Illuminismo hanno immaginato il pensiero umano come un fantasma all’interno di un automa, noi possiamo immaginarlo come una scheda madre estremamente potente e sofisticata o come collocato su un chip di silicio all’interno di un potente microprocessore.
Le tre funzioni principali del cervello sono la logica, la memoria e l’input/output (il flusso di dati in entrata e in uscita). La mente umana ci appare non tanto come un motore analitico sovralimentato, quanto piuttosto come un computer multiprocessore che regola queste tre funzioni.
La metafora che vede il cervello umano come un moderno computer a elaborazione multipla in fondo non è male ed è migliore di altre. Tuttavia, almeno per adesso, l’analogia cervello-computer resta una semplice analogia e non una spiegazione definitiva. I computer, infatti, non possiedono ancora molte delle caratteristiche del cervello umano reale, come per esempio la coscienza, di fatto pienamente espressa solo nell’uomo. Senza la coscienza, l’uomo moderno si ridurrebbe a poco più che un abilissimo ed estremamente vulnerabile Homo ergaster (un ominide vissuto in Africa tra 2 e 1 milione di anni fa). In altre parole, probabilmente non sarebbe nato o, comunque, non sarebbe sopravvissuto a lungo e tanto meno avrebbe governato il mondo naturale. È proprio la coscienza che permette alle funzioni cerebrali superiori di raggiungere la realizzazione delle loro potenzialità.
Essere cosciente e autoriflessivo significa anche riconoscere di essere un minuscolo puntino molto fragile in un mondo estremamente pericoloso. Significa anche sapere di essere mortali e che quindi un giorno moriremo e tutto quello che è contenuto nella nostra mente morirà con noi. E nell’impatto tra la presa di coscienza della morte e un senso di sé che ha uno scopo e un grande valore, emerge inoltre la sensazione che l’Universo abbia un progetto più ampio del quale non siamo che una piccola parte, ma al quale possiamo dare il nostro contributo anche dopo la morte. Sentiamo il bisogno di trasmettere ciò che abbiamo imparato, la saggezza che abbiamo conquistato a fatica, a coloro che seguiranno e onoreranno la nostra memoria.
Grazie alla sua estesa corteccia cerebrale, il primo uomo moderno ha potuto sviluppare un linguaggio complesso. Ma sono state le esigenze quotidiane sempre più numerose e complicate, combinate alla coscienza e a un’irrefrenabile ricerca di un significato e di uno scopo, a condurre il linguaggio verso una piena realizzazione. Abbiamo iniziato a parlare perché avevamo cose da imparare e storie da raccontare!
Dal momento esatto in cui l’uomo ha cominciato a parlare, c’è stata una profonda discontinuità con il passato. Quel sottile strato neurale corrugato della corteccia cerebrale, con le sue enormi capacità di memoria, la formidabile capacità di supportare il linguaggio e, soprattutto, la coscienza accompagnata da un desiderio di potere e immortalità, ha potuto realizzare cose impensabili per qualsiasi altro cervello. Ha potuto organizzare il pensiero usando la logica appresa dalle relazioni causali osservate nel mondo naturale; ha potuto sintetizzare nuove idee grazie al collegamento metaforico di due nozioni diverse e ha permesso di perfezionare e vagliare scenari del mondo per comprendere la realtà in modo più accurato.
Nessun’altra creatura ci era mai riuscita prima; nessuno, inclusi gli ominidi ha mai conosciuto il concetto di “io”, ha mai speculato sul futuro o utilizzato la logica (deduttiva per comprendere il presente, induttiva per comprendere il futuro) come mezzo verso la verità. Di fatto nessun altro animale ha mai formulato il concetto reale di verità.
Grazie a un vero linguaggio (e per la prima volta nella storia della Terra), i ricordi complessi sia vecchi che nuovi (le idee) hanno potuto essere trasmessi da un membro di una specie all’altro; un processo reso sempre più semplice dall’evoluzione del linguaggio stesso, che perdura tutt’oggi, per perfezionare questa funzione. I ricordi condivisi, oltre ad avere un tempo di vita più lungo, possono effettivamente crescere di grandezza e utilità, in quanto chiunque li condivide aggiunge dei contenuti che poi può condividere a sua volta. Questa ‘memoria collettiva’ – saggezza condivisa, in opposizione alle abilità ripetitive condivise – apportava molto spesso a un miglioramento rispetto a quella del singolo individuo. Questo implica che c’era quasi sempre un vantaggio intrinseco evidente nel parlare gli uni con gli altri e nel condividere le esperienze.
La condivisione, a sua volta, premiava i gruppi con un numero maggiore di individui, non solo per la facilità di diffusione del linguaggio, ma anche perché esibiva quella che noi oggi chiamiamo legge di Metcalfe: il valore di una rete cresce esponenzialmente all’aumentare dei suoi utenti.
Riassumendo, la formazione della corteccia cerebrale, che ha attivato la predisposizione genetica degli ominidi verso il linguaggio e ha permesso una più piena espressione della memoria, ha portato alla nascita (in qualche modo) di un fenomeno unico per l’uomo moderno, la coscienza. Gli uomini e le donne coscienti, ansiosi di servire la loro individualità alla luce delle nuove conoscenze sul mondo naturale e sulla morte, hanno trovato il vantaggio competitivo nell’espandere il linguaggio fino a farlo diventare più universale, adattivo e astratto. Inoltre, usando il linguaggio per condividere con gli altri i ricordi (esperienze, storie, idee, abilità), l’uomo moderno ha scoperto il valore di una struttura sociale sempre più grande e il vantaggio e la forza della stratificazione e specializzazione sociali. Alla fine, questa specializzazione ha fatto sì che alcuni individui della società fossero liberi di concentrarsi sull’ampliamento sia dei depositi collettivi della memoria che del linguaggio necessario ad amministrarli; parliamo degli sciamani, dei sacerdoti e, infide, degli accademici.
Strabiliante, non è vero? Ciò che ha davvero del miracoloso in questo processo non è solo il fatto che si sia verificato, ma anche la velocità con la quale si è sviluppato. Homo sapiens ha fatto la sua comparsa per la prima volta 200 000 anni fa. Solo 130 000 anni fa – un battito di ciglia in termini evolutivi – il primo uomo moderno ha iniziato a migrare fuori dall’Africa… e nonostante si sia avvicinato pericolosamente all’estinzione (per esempio la catastrofe di Toba o a lunghe epidemie), è riuscito a esplorare e a popolare l’Eurasia e l’Oceania in soli 30 000 anni. Appena 25 000 anni dopo, i primi uomini e donne moderni sono riusciti ad attraversare lo stretto di Bering e a popolare le Americhe. Solo 4000 anni dopo, Homo sapiens ha abbandonato un’esistenza da cacciatore-raccoglitore per stabilirsi nelle città e ha intrapreso la prima Rivoluzione agricola. E 10 000 anni dopo ha lasciato la Terra per muovere i primi passi sulla Luna. Nello stesso intervallo di tempo la maggior parte dei mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, pesci e insetti non ha subìto quasi alcun cambiamento.
Di Andrea Valitutti
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