La consapevolezza cosciente è uno dei più sconcertanti puzzle delle neuroscienze moderne. Qual è la relazione tra la nostra esperienza mentale e i nostri cervelli fisici?
Il filosofo René Descartes (Cartesio) presumeva che un’anima immateriale esistesse separatamente dal cervello. La sua congettura, rappresentata in questo disegno, era che lo stimolo sensoriale s’inserisse nella ghiandola pineale, che serve come ingresso allo spirito immateriale (molto verosimilmente scelse la ghiandola pineale perché si trova sulla linea mediana del cervello, mentre le altre parti della mente sono generalmente doppie, essendo rappresentate in ognuno degli emisferi).
L’idea di un’anima immateriale è facile da immaginare; è tuttavia difficile conciliarla con le prove fornite dalle neuroscienze. Descartes non ha mai gironzolato per un reparto neurologico. Se lo avesse fatto, avrebbe visto che quando i cervelli cambiano, cambia pure la personalità della gente. Alcuni tipi di danno cerebrale rendono la gente depressa. Altri cambiamenti la rendono maniacale. Oppure ne modificano la religiosità, il senso dell’umorismo o la propensione al gioco d’azzardo. Possono rendere un individuo irresoluto, delirante o aggressivo. Esistono quindi degli ostacoli al presupposto che sia possibile separare la mente dal corpo. Le neuroscienze moderne lavorano per scoprire il rapporto tra una dettagliata attività neurale e stati di coscienza specifici.
Proviamo a focalizzarci, per esempio, sulla consapevolezza che siamo esseri senzienti.
Quando penso a chi sono, c’è un aspetto preminente che non può essere ignorato: sono un essere senziente. Io sperimento la mia esistenza. Sento che sono qui, guardo il mondo attraverso questi occhi, percepisco questo spettacolo in technicolor dal mio personale punto di osservazione. Chiamiamo questa sensazione ‘coscienza’ o ‘consapevolezza’.
Gli scienziati spesso dibattono su quale possa essere una corretta e dettagliata definizione di coscienza, ma, con l’aiuto di un semplice paragone, spiegare quello di cui stiamo parlando è abbastanza facile: quando siamo svegli siamo coscienti e quando dormiamo profondamente non lo siamo. Questa distinzione ci dà l’occasione di porre una semplice domanda: qual è la differenza, nell’attività cerebrale, tra questi due stati?
Un modo per misurare tutto ciò esiste, ed è l’elettroencefalografia (EEG), che cattura una sintesi di miliardi di neuroni che si accendono, raccogliendo, dall’esterno del cranio, deboli segnali elettrici. Come tecnica è un po’ primitiva, infatti a volte è paragonata al tentativo di capire le regole del rugby tenendo un microfono appoggiato all’esterno del campo sportivo. Ciononostante, la EEG può offrire rapidamente la comprensione delle differenze tra gli stati di veglia e di sonno.
Quando siamo svegli, le onde del nostro cranio rilevano che i nostri miliardi di neuroni sono impegnati tra di loro in scambi complessi: paragonate tutto questo alle migliaia di conversazioni individuali tra la folla degli spettatori di una partita di rugby.
Quando andiamo a dormire, il nostro corpo sembra chiudere i battenti, sarebbe quindi naturale dedurre che lo stadio neuronale si acquieti. Nel 1953 si scoprì che tale deduzione è scorretta: il cervello è attivo tanto di notte quanto di giorno. Semplicemente, durante il sonno, i neuroni si coordinano l’uno con l’altro in modo differente, entrando in uno stato più ritmico e sincronizzato. Immaginate la folla allo stadio che fa incessantemente la ola.
Come possiamo immaginare, in uno stadio sportivo la complessità della discussione è molto più ricca quando si stanno svolgendo migliaia di conversazioni separate. Per contrasto, quando la folla è coinvolta nell’urlo della ola, abbiamo un lasso di tempo meno denso di contenuti intellettuali.
Quindi quello che noi siamo in ogni dato momento, dipende dai complessi ritmi della nostra accensione neurale. Durante il giorno, il nostro Io cosciente emerge da quella complessità neurale integrata. Di notte, basta un piccolo cambiamento dell’interazione dei nostri neuroni e noi scompariamo. Chi ci vuole bene deve attendere fino al mattino successivo, quando i nostri neuroni lasciano che l’onda muoia e si riattivano, rientrando nel loro ritmo complesso.
È solo allora che noi ‘ritorniamo’.
Quindi ciò che noi siamo dipende da quello che, in ogni istante, i nostri neuroni, stanno combinando.
Di Andrea Valitutti
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