Soundtrack da ascoltare durante la lettura: “Blue in green” – Miles Davis
“È facile notare i seguenti elementi in tutta la sua pittura: caos, assoluta mancanza di armonia, completa mancanza di struttura compositiva, totale assenza di tecnica, ovunque rudimentale. Ancora una volta, caos.” Questa la critica mossa da Bruno Alfieri, critico italiano, a Jackson Pollock e riportata dal Time nel 1950 in seguito all’esordio in Europa del pittore alla XXV Biennale di Venezia.
Effettivamente quello che salta all’occhio dalle tele di Pollock è un caos di linee e macchie colorate, dove la razionalità e l’organizzazione sembrano restarne fuori, ma dietro tutto questo si svela la sua introspezione psicologica e una nuova tecnica: il dripping, che consiste nel far gocciolare con gesti rituali e coreografici il colore su una tela posta in orizzontale.
Nella sua ricerca artistica aveva tratto ispirazione dai miti della cultura greco-romana a quelli degli indiani d’America. Per questo motivo i movimenti che compiva Pollock nel dipingere richiamavano molto i riti magici di questi ultimi.
Gli ampi e violenti movimenti del pennello, il modo di trattare la tela e la sua energia creativa non passarono inosservati. La sua pittura fu una vera e propria rivoluzione dell’arte moderna.
“Non dipingo sul cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. (…) Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente “dentro” al dipinto.” È così che parla della sua arte il maggiore esponente dell’action painting. Questa corrente vive nell’espressionismo astratto, primo movimento artistico statunitense che influenzò il resto del mondo e che contribuì a rendere New York la nuova capitale artistica.
Jackson Pollock mise su tela il disagio di non sentirsi inseriti nella società all’indomani del secondo conflitto mondiale. Caos o ordine? Casualità o consapevolezza? Omologarsi o trasgredire? Queste erano le domande più frequenti tra i giovani artisti americani del periodo. Tra paure, clima di sfiducia, ansia, sospetto, paranoia, l’arte del flusso di coscienza ne fu la reazione e conobbe un grande sviluppo in tutte le arti: in letteratura, Jack Kerouac e gli altri autori della Beat generation; in musica, il jazz di Miles Davis e la nascita del rock’n roll; nel cinema, le icone culturali James Dean e Marlon Brando.
Tutti questi artisti incarnano il prototipo di mito maledetto tipico del panorama degli anni ’50. Anticonformisti, amanti delle sperimentazioni e dell’andare oltre i limiti, ricercavano un modo per liberare l’io interiore e per dare sfogo ai loro conflitti interiori. Questo lo ritrovarono nell’arte.
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