Femvertising, dall’inglese ‘feminism‘, femminismo, e ‘advertising‘, pubblicità: il neologismo coniato nel 2015 per diffondere in maniera accattivante l’hashtag portatore del concetto di donna non più come volgare strumento per acchiappare visualizzazioni negli spot attraverso l’ormai superato stereotipo della ragazza senza cervello ma sexy, o anche quello retrogrado della femmina come casalinga e madre dedita solo a far figli e a gestire il nido familiare, oggi sta finalmente ricevendo un’accoglienza nel pensiero collettivo degna del messaggio di cui è il fiero portanome.
Sulla falsariga di quanto #femvertising sostiene, negli ultimi anni si sta assistendo ad un notevole incremento delle pubblicità femministe, o quantomeno legate ad una visione più moderna ed equilibrata del ruolo rivestito da una protagonista di uno spot: si incomincia finalmente a vedere qualche ragazza un po’ in carne che utilizza con orgoglio le sue curve per mostrare la morbida comodità dell’ultimo modello di reggiseno distribuito nei negozi; una bambina che da grande vuole fare la pilota di auto da corsa e anni dopo vince addirittura il mondiale; signore e signorine di tutte le età che sfoggiano, fiere anche delle loro piccole imperfezioni, come una nota lametta renda lisce le ascelle senza irritarle; o ancora qualche papà che si occupa di preparare la cena mentre la mamma rincasa da lavoro, perché sì, il femminismo serve anche a dare lustro agli esponenti del genere maschile che non si ancorano ai dettami del passato, partecipando con serenità alla conduzione della casa o praticando un trattamento più egualitario del gentil sesso.
Body positivity e woman empowerment, queste le declinazioni più significative del femvertising: la prima è incentrata sull’accettazione interiore ed esteriore di ogni donna, meravigliosa e complicata ma mai meritevole di essere etichettata solo perché con le labbra poco carnose o con qualche smagliatura; l’altra è una vera e propria denuncia a quelle disuguaglianze in ambito lavorativo, sportivo, politico, relazionale che per troppo tempo sono esistite, riflessione che possiamo cogliere, solo per citarne uno, nello spot dello scorso dicembre della Adidas. La pubblicità, infatti, attraverso il paragone tra le performance sportive eseguite tra atleti ed atlete, mostra con audacia quanto persino in questo tipo di ambiente esistano ancora pregiudizi e barriere da abbattere.
La speranza è che questo movimento costituisca qualcosa di più che un semplice hashtag destinato, una volta superato il picco di popolarità, ad un’inesorabile fine, un autentico trampolino di lancio verso un (vicino?) futuro passo in avanti nei fondamentali rapporti che si instaurano tra le persone, di qualunque genere, aspetto e ideologia.
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