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Come al solito, io non posso scrivere di qualcosa in modo tradizionale, quindi non posso continuare nemmeno a parlare della comunità LGBT+ come ho fatto fino ad ora. Per, essenzialmente, una semplice ragione: con il nuovo anno, arriva anche un nuovo modus operandi.
Ma adesso, basta parlare di me, perché non è per questo motivo che avete aperto l’articolo. –Ne ho una certezza di quasi il 75%. Anche se so che mi adorate. … Hey! Piano con quei forconi!- “Ciancio alle bande”, è il momento di rispondere alla domanda che vi state facendo da un po’ e io la sto tirando troppo per le lunghe: Che cos’è il “paradosso queer”?
È un nome, che ho dato alla totale incoerenza della comunità LGBT+, anche e soprattutto perché se avessi intitolato questo articolo “È solo una fase”, mi avrebbero ucciso senza passare dal Via e io ho ancora tante persone da offendere prima di tirare le quoia. Ma lasciatemi spiegare dall’inizio:
Alessandra Surace è una delle persone più assolutamente queer che io abbia mai avuto incontrato -ok, forse sto usando troppe lusinghe, ma ha i capelli viola! Direi che se le merita tutte.-, quindi non potevo che chiedere a lei una definizione non convenzionale del termine.
“Cosa vuol dire per me? È molto complicato, ma non in senso canonico. Per me essere queer significa accettare le mie complessità, accettare me stessa. È stato difficile, con il tempo, ammetterlo a me, ma non è stato più differente dell’ammettere un qualsiasi altro tratto della mia persona.”
-Alessandra
Accettazione che, in un modo o in un altro, non è mai facile. Possiamo facilmente dire che è uno dei talloni d’achille della comunity. Perché se, mentre da una parte l’etichetta è fondamentale per chi ha bisogno sentirsi appartenere a qualcosa per non sentirsi solo, dall’altra ci limita moltissimo. Non è raro, infatti e purtroppo, imbattersi in dei comportamenti un po’ radicali da parte delle stesse persone che predicano l’accettazione totale di qualcuno, quando questi non rispetta i parametri della sua “classificazione“.
Mi sento un po’ come se stessi parlando di cavie da laboratorio e mi dispiace moltissimo. Comunque sia, non fraintendete: nessuno sta dicendo che la comunity è così e basta, ma che ci sono anche persone troppo radicali, che possono sfociare nel tossico.
“‘Sii te stessx’ non vuol dire necessariamente ‘incasellati lì e aderisci a questa etichetta’. È vero che la comunità è un safe space, ma può esserlo per questo momento, lo è perché quando sei adolescente hai bisogno di aderire a qualcosa, perchè stai formando la tua personalità e quindi assorbi, assorbi, assorbi! È chiaro che è più bello assorbire da una cosa che ti trasmette colori, gioia e positività. Ma è anche altrettanto vero che così ad un certo punto la definizione da vocabolario ti diventa stretta, perchè quella roba lì non puoi essere tuttx tu.”
-Alessandra
Tornando sulla strada maestra: accettazione. Generalmente quando si parla dei problemi legati a questa parola, si parla dell’accettazione da parte degli altri, ma in realtà Alessandra ha detto una cosa importante: bisogna accettare se stessi. A volte è chiaro come il sole che siamo storti e lo diventa ancora di più quando, sbagliando, proviamo a raddrizzarci. -Sì, so che sembra una predica scontata.-
“Non ho mai neanche avuto bisogno di fare coming out, perché è sempre stata una cosa abbastanza chiara.”
– Alessandra
Spiegarvi come la conversazione abbia preso questa piega mi farebbe sforare con i caratteri, quindi perdonatemi se ho deciso di sforare con le mie battutine. –Sono scelte di vita importanti, queste: se devo farmi licenziare, lo faccio con classe. – Non sapevo bene di cosa avrebbe parlato questo articolo, poi ha detto 13 paroline magiche e io ho avuto una rivelazione di livelli biblici:
“Non mi vergogno di dire che alcune cose nella vita sono delle fasi.”
– Alessandra
Fermi con l’odio e i forconi!
L’impulsività è un problema ed è giusto che ci spieghiamo. È vero: “È solo una fase” è la frase preferita dei genitori che non accettano i loro figli queer ed è usata per sminuire innumerevoli volte la loro identità, ma non è questo il caso. Adesso ha un’accezione negativa, nello stesso modo in cui prima lo era la parola “queer”, ma non possiamo negare che ci sono infinite fasi nella vita. Così come tutti abbiamo avuto la fase dark, punk, pop e rap -o, peggio ancora, trap.– , c’è la fase in cui crediamo di essere omosessuali o tran binari -personalmente, non mi fido di chi non ha mai avuto dubbi sulla propria sessualità o sul proprio genere.- , ma non vuol dire che deve durare per sempre. Le persone cambiano e così anche il modo di identificarsi. –E poi si arriva a capire che non c’è n’è bisogno, di una definizione- .
“Non è che questo cambi particolarmente chi sono. Quando vado a dormire la sera e appoggio la testa sul cuscino -ammesso che dorma-, non è che invece di contare le pecore penso ‘ok, allora, adesso sono bisessuale’ e ronf. Non è una di quelle cose alla quale penso. Smantello altre cose della mia vita, ma questo no: non ce n’è bisogno. Sono fatta così e mi accetto e, paradossalmente, ho iniziato ad accettarmi quando ho iniziato a non interessarmi più.”
-Alessandra
Quindi eccomi qui a presentarvi il paradosso queer: lo stranissimo principio per cui cerchiamo delle definizioni quando, proprio per il nostro essere queer, allo stesso modo ne scappiamo e le troviamo oppressive. In pratica, un altro paradosso dell’essere umano –forse è sempre lo stesso espresso in un ambito diverso? Dopotutto sia esseri altamente lunatici…-
Written by: Aurora Vendittelli
Tempo di lettura 3 minuti
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