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Ho iniziato questa rubrica con una notizia bomba, ma io non sono una divinità e questi articoli non stanno formando nessuna Sacra Scrittura del nuovo secolo -solo pensare a questa possibilità fa gonfiare pericolosamente il mio ego-. Quindi ho contattato lo psichiatra e psicoterapeuta Carlo Valitutti, per conoscere anche un’opinione professionale. Ovviamente l’opinione di solo due persone non basta, quindi ogni tanto ci saranno citazioni di altri ragazzi. –Nomi e cognomi saranno inventati, perché mi diverte inserire nomi strani-.
Serviva fare un discorso più generale invece che partire in quarta come nell’articolo precedente, dove affermavo che le etichette della comunità lgbt+, dopo un certo periodo, diventano superflue se non addirittura costrittive. Durante la conversazione infatti, è stata pronunciata la frase che descrive a pieno l’utilizzo che facciamo della comunità queer e delle sue sottocategorie:
“È un modo di sentirsi parte, quando unə non sa da che parte sta.”
– Carlo Valitutti
Quindi era ovvio che mi chiedessi perché sono necessarie nella nostra vita, perché quando ci presentiamo diciamo “sono [inserire aggettivo]”?
E c’è anche un’altra difficoltà intrinseca: questo bisogno di definirsi si presenta quando siamo adolescenti, quando il caos dei nostri pensieri si unisce alle tempeste ormonali e allo studio della filosofia al liceo. Quando siamo confusione all’ennesima potenza. –Sì, lo che per molti la matematica è un Tallone d’Achille, ma questa espressione concedetemela-.
“Una prima difficoltà, un primo disagio psicologico ed emotivo che prova qualsiasi ragazzə durante la sua crescita evolutiva è iniziare a capire chi è, visti i cambiamenti biologici del corpo, ma anche quelli psicologici. E la cosa rappresenta molto bene uno smarrimento, un’idea di sè che ancora non è precisa è pensare ‘Forse non sono quellə che appaio. Forse non sono quellə che gli altri si aspettano da me’.”
– Carlo Valitutti
Ed ecco qui che ci troviamo, all’improvviso e senza senso, davanti alla spaccatura: chi sono – chi dovrei essere? All’inizio, non ne abbiamo bisogno: siamo dei bambinetti spensierati che non capiscono classificazione o percorsi introspettivi. Siamo noi. E se lo chiedete ad un bambino, la risposta sarà disarmante nella sua semplicità, se paragonata ai viaggi mentali che un adolescente si farebbe prima di rispondere. La necessità nasce quando il nostro corpo inizia a cambiare e ci troviamo nella così detta “confusione ormonale“.
“È abbastanza frequente e tipico che questo smarrimento ce l’abbiano gli adolescenti, in una crescita evolutiva particolare, quando si è già stati in uno sviluppo puberale stabilito da condizioni biologiche e che quindi hanno bisogno di sapere soprattutto se non si sentono così definiti soltanto dalle caratteristiche sessuali secondarie.”
– Carlo Valitutti
E cos’è che un ragazzo vuole disperatamente? Essere capito, compreso e non sentirsi solo. Le classificazioni della comunità servono quindi sia come punto fermo, sia per sentirsi parte di qualcosa di più grande. È un modo per sentirsi compresi quando siamo in un’età in cui si viene trattati come bambini, ma con delle aspettative da adulti. -Sì, è una leggera critica ai genitori. Non tutti ovviamente: ci sono quelle rare creature mitologiche che non lo fanno. Ma fossi in voi, cari genitori, un pensierino sulle dinamiche familiari lo farei-.
“Sembra quasi che servano più agli altri, che non a chi si identifica”
-Gianfranpaola
Alcuni adolescenti che si classificano, poi arrivano a rimpiangere di averlo fatto, a rifiutare le etichette precedenti. Ma questo non capita a tutti; esattamente come non tutte le persone queer scelgono di identificarsi. Non si tratta di maturità o altro: è più comfort zone.
“L’etichetta in genere stigmatizza, cioè circoscrive, costringe entro confini ben definiti che però, a volte, uno ha bisogno di avere. Per avere un punto di riferimento che poi contraddirà, supererà, che poi si evolverà. Però è come se fosse quasi rassicurante, anche se pericoloso, rischioso, costrittivo. […] C’è una reale ricerca da parte di certi adolescenti che hanno bisogno di sapere che cosa stanno sentendo realmente e questo richiama un’idea di rassicurazioni, di appartenenza. Poi ci sono anche quei ragazzi che non vogliono sentirsi definiti da qualcosa.”
– Carlo Valitutti
Questi ultimi sono coloro che si definiscono fluidi –e che nel mio dizionario hanno l’immagine dei Barbapapà allegata– e che credo si dividano in due categorie:
“Rovini il queer, con le etichette. Crei solo altre sovrastrutture.”
-Ermeldo
Ma, in entrambi i casi, concordo con Carlo nel dire che le persone fluide sono estremamente coraggiose:
“Questa fluidità non è così semplice perché è molto più facile pensare ‘sono bianco’ o ‘sono nero’ e non ‘sono multicolore’ e non, soprattutto, ‘sono pieno di grigi e sfumature’. Questa fluidità è molto coraggiosa perché predispone a una ricerca.”
– Carlo Valitutti
Anche se, bisogna dirlo con franchezza totale, tutte le persone queer, che si definiscano o meno, sono coraggiose: perché non viviamo in una società idilliaca dove puoi permetterti di andare in giro come se fosse normale, perché c’è chi normale non lo considera e le conseguenze non sono piacevoli. –Eufemismo del secolo- Le persone fluide combattono ogni giorno contro la paura di essere le prossime vittime di crimini d’odio e forse lo stiamo dando un po’ troppo per scontato.
“Di fronte a questo momento storico in cui si parla molto di identità fluida purtroppo le reazioni possono essere estreme, o di estrema “pruriginosità” etica, religiosa o di qualsiasi altro genere si tratti […] o c’è un’eccessiva leggerezza nell’accettare senza riflettere e senza criticare e senza, soprattutto, ascoltare questa diversità o questa specificità, che per molti è una novità.”
– Carlo Valitutti
Written by: Aurora Vendittelli
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