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Sountrack: “I duri hanno due cuori” – Ligabue
In italiano, come in molte altre lingue, le cose da nominare sono tante e le parole sembrano non bastare mai. Accade quindi la cosa più naturale di tutte: l’essere umano attua la fondamentale arte del riciclo. Una stessa parola indicherà più cose. Si parla in questo caso di parole polisemiche, cioè parole che hanno più significati.
Questo processo di efficientamento ci risparmia di inventare parole lunghissime o di imparare una caterva di suoni e fonemi… ma le parole identiche possono confondere. Confusione che aumenta se pensiamo che in realtà abbiamo parole identiche che sono parole diverse! Sembra contorto sì, ma basta poco per spiegare tutto.
Innanzitutto abbiamo le parole quasi identiche, dette omografe – stessa scrittura, composte dalle stesse lettere ma con suoni diversi, a causa della posizione o del tipo di accento. Qualche esempio? Sùbito -avverbio- e subìto -participio di subìre-, prìncipi -figli di re- e princìpi -morali-, oppure pésca -sport- e pèsca -frutto-, légge -sostantivo: del taglione- e lègge -verbo: un libro-.
Dopodiché esistono le parole effettivamente identiche, cioè le omofone che quindi hanno stessa grafia e stesso suono, che sono dette anche omonime: stesso nome. Ma perché inizialmente ho parlato di parole polisemiche e non di omonime? Perché parlavo di “parole identiche che sono parole diverse”? Il motivo è semplice: tutte le parole identiche sono omofone -o omonime-, ma alcune di queste vengono da parole anticamente diverse e finite per essere uguali. Altre parole omofone sono invece la stessa parola poi utilizzata per usi diversi, attuando quella sorta di riciclo di cui parlavo all’inizio: le vere e proprie polisemiche.
Facciamo ancora qualche esempio: reale significa “del re” oppure “vero, concreto”. Scritte e pronunciate allo stesso modo, ma sono due parole originariamente diverse, poi diventate gemelle. Nel primo caso la radice latina è rex, “re” ; nel secondo è res, cioè “cosa”. Oppure pensiamo al riso, che indica il cereale e l’atto del ridere: il primo viene dal latino oryza, il secondo da risus. Per motivi del tutto casuali hanno finito per assomigliarsi sempre più fino a divenire omofone… pur essendo due parole diverse.
Ma fra le tante omofone che abbiamo in italiano quali sono invece le parole polisemiche, cioè quelle singole parole che vengono applicate a cose diverse? Be’ possiamo iniziare dal titolo: perire, o meglio ancora perito! Se perire lo utilizziamo di solito solo come morire, perito ha due significati di uso comune: il tecnico esperto e il morto. E no, con le pere non c’entra nulla ma il titolo mi faceva ridere.
Dunque, il perito agrario o assicurativo e l’eroe perito in duello sono cose molto diverse, ma la parola alla base è identica: come mai? Vediamo innanzitutto da dove viene il verbo perire: ovviamente dal latino, “per-ire“, dove -ire è il verbo andare e la particella per- ha funzione superlativa o indica “attraverso”. Il per-ito è quindi esperto in quanto è uno che “ci è passato”, uno che è andato a fondo nel suo campo ecc. Ma gli elementi di cui è composta la parola la rendono perfetta anche per chi, in un senso più figurato, se n’è andato definitivamente, cioè è morto.
Un altro verbo che ha assunto due significati diversi è comportare. Dal latino cum-portare -portare-con- significa due cose: agire in un certo modo -comportarsi- oppure causare qualcosa (comportare). Frase esempio prendi due paghi uno: Il fatto che ti comporti così male comporterà delle conseguenze. Qui la confusione ce la toglie la forma riflessiva: comportar-si infatti possiamo immaginarlo relativo al “come portiamo noi stessi”, mentre la forma attiva comportare è relativa a qualcosa “che porta qualcos’altro”: il tuo gesto comporta -porta con sé- delle conseguenze.
Infine abbiamo la parola polisemica verso, che trovo interessante perché ha almeno quattro significati. Partiamo dall’esempio: “tornando dal bar vado verso casa, mentre canticchio il verso di una canzone mi distrae il verso di alcuni uccelli: inciampo e verso la bibita che stavo bevendo”.
L’origine come al solito è latina: versus, che è il participio del verbo vertere, cioè rivoltare, rigirare. Insomma è semplicissimo capire il perché di “versare la bibita” -girare il contenitore per farla fluire fuori- così come dell’andare “verso casa”. Più misteriosi sono i versi delle poesie e degli animali: che c’entrano con “vertere”? È presto detto: nello scrivere la poesia si rispetta una certa lunghezza in sillabe delle frasi, ad esempio l’endecasillabo che è fatto di undici sillabe, poi… si va a capo! Cioè si torna indietro, si “verte” la frase sul foglio.
Siccome poi le poesie vengono sì scritte, ma i loro versi venivano anche recitati, declamati, è successo che il “verso” è stato quindi associato a qualcosa di vocale, e da lì è passato ad indicare le “voci” degli animali.
Insomma, questo usare parole già esistenti a numerosi oggetti e concetti, la polisemia, ci permette di non dover conoscere decine di migliaia di parole, che è bene. Ma soprattutto ci tiene i pomeriggi a pensare “ma che c’entra questa cosa con quest’altra” scoprendo cose curiose. Anche questo è bene perché il tempo libero va impiegato divertendoci.
A proposito: spero ti sia divertito a leggere questo articolo, ma tu puoi far divertire me: qual è una parola polisemica che trovi molto curiosa? O qual è quella che ha più significati diversi? Vediamo se riesci a battere “verso”…
Written by: Emiliano Venanzini
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