Si può studiare in laboratorio il guasto di una normale funzione sociale? Per scoprirlo venne elaborato un esperimento.
La prima domanda era semplice: può il vostro basilare senso di empatia verso qualcuno cambiare a seconda che questo qualcuno appartenga al gruppo di noi o al gruppo di loro?
Vennero messi i partecipanti nello scanner in modo che potessero vedere sullo schermo sei mani. Come la ruota della fortuna in un gioco a premi, così il computer sceglie a caso una delle mani. La mano prescelta si ingrandisce al centro dello schermo e voi la osservate mentre viene toccata con un bastoncino di cotone o trafitta con l’ago di una siringa. Si tratta di due azioni che producono lo stesso tipo di attività nel sistema visivo, ma reazioni molto diverse nel resto del cervello.
Come abbiamo spiegato le scorse settimane, la vista di qualcuno che soffre, provoca la reazione della nostra matrice del dolore. È questa la base dell’empatia. A questo punto vennero poste le domande sull’empatia a un livello più approfondito. Avendo stabilito le linee guida, si è introdotto un cambiamento molto semplice: sullo schermo apparivano le stesse mani, ma ora ciascuna di esse aveva un’etichetta con scritto solamente Cristiano, Ebreo, Ateo, Mussulmano, Indù, Membro di Scientology. La mano scelta a caso dal computer veniva ingrandita al centro dello schermo e quindi toccata col bastoncino o trafitta con l’ago della siringa. La domanda dell’esperimento era: il vostro cervello avrà la stessa reazione di sofferenza nel vedere la mano trafitta di un membro del gruppo dei loro?
Ci sono state risposte diverse ma in media i cervelli dei partecipanti mostravano una risposta empatica maggiore se vedevano patire dolore qualcuno del gruppo di noi e una risposta meno empatica nel caso di un membro del gruppo dei loro. La cosa sorprendente di questo risultato è che tutto si basava su un’etichetta di un’unica caratteristica: c’era voluto così poco per stabilire l’appartenenza a un dato gruppo.
Una semplice categorizzazione è sufficiente per cambiare la risposta preconscia del vostro cervello nei confronti del dolore altrui. Naturalmente si può avere un’opinione riguardo alla capacità della religione di creare divisioni, ma qui si tratta di qualcosa di più profondo: l’esperimento di questo studio aveva mostrato negli atei una reazione maggiore al dolore della mano etichettata “ateo” e una reazione minore di fronte alle altre etichette. Quindi il risultato mostra che fondamentalmente la reazione non è basata sulla religione, ma riguarda la squadra cui appartiene.
Abbiamo visto che le persone possono provare meno empatia per i membri del gruppo dei loro, ma per capire qualcosa come la violenza o il genocidio, dobbiamo scavare più a fondo e arrivare alla disumanizzazione.
Lasana Harris, dell’Università olandese di Leida, ha condotto molte ricerche e esperimenti che si concentravano sui cambiamenti nella rete sociale del cervello, in particolare nella corteccia prefeontale mediale (mPFC). Questa regione cerebrale diventa attiva quando noi interagiamo con gli altri, o pensiamo agli altri; ma non si attiva quando abbiamo a che fare con oggetti inanimati, come la tazzina del caffè.
Harris, mostrando ai volontari delle foto di persone appartenenti a diversi gruppi sociali, per esempio dei senza tetto o dei drogati, ha scoperto che l’mPFC è meno attivo quando essi guardano un senza tetto. È come se quella persona fosse un oggetto inanimato.
Secondo Harris, «spegnendo» i sistemi cerebrali che vedono i senza tetto come esseri umani, si evita la sgradevole sensazione di sentirsi in colpa per non aver fatto loro l’elemosina. In altre parole, i senza tetto sono stati disumanizzati: il cervello li vede più come oggetti che come persone. Non sorprende quindi che essi non vengano trattati con considerazione. Spiega Harris : «se non individuate correttamente le persone come esseri umani, allora le regole morali riservate agli esseri umani non sono più valide».
La disumanizzazione è l’elemento chiave del genocidio: proprio come i nazisti consideravano gli ebrei meno che umani, così i serbi nella ex Iugoslavia facevano lo stesso con i mussulmani.
Il genocidio risulta possibile solo quando la disumanizzazione viene praticata su larga scala, e lo strumento perfetto per questa impresa è la propaganda: si introduce direttamente nella rete neurale che capisce le altre persone e abbassa il grado di empatia che proviamo per loro. Un esempio pratico riguardo la disumanizzazione attuata dalla propaganda, che sta tutt’ora avvenendo in questi ultimi anni, è sull’immigrazione.
Come abbiamo visto, il nostro cervello può essere manipolato per scopi politici, per ottenere la disumanizzazione degli altri, conducendo verso il lato oscuro del comportamento umano. Sarà possibile programmare il nostro cervello per evitare ciò? Una possibile soluzione potrebbe nascere da un esperimento degli anni Sessanta, condotto non in un laboratorio, ma in una scuola.
Era il 1968, all’indomani dell’assassinio del leader dei diritti civili Martin Luther King. Jane Elliot, insegnante in una piccola città dell Iowa, decise di mostrare alla sua classe che cosa fosse il pregiudizio. Jane domandò alla classe se sapeva che cosa si provava a essere giudicati per il colore della pelle. Molti degli studenti credevano di saperlo, ma lei non ne era tanto sicura, così iniziò quello che era destinato a diventare un esperimento famoso: annunciò che quelli con gli occhi azzurri erano «le persone migliori in questa stanza».
“Jane Elliot: i bambini con gli occhi marroni non possono usare il distributore d’acqua; dovranno usare i bicchieri di carta. Voi con gli occhi marroni non potrete andare a giocare al campo giochi insieme a quelli con gli occhi azzurri, perché voi non siete bravi come loro. Oggi in quest’aula quelli con gli occhi marroni dovranno indossare un colletto, così potremo individuare anche a distanza di che colore avete gli occhi. Andate a pagina 127… siete tutti pronti? Tutti meno Laurie. Sei pronta Laurie?
Bambino: lei ha gli occhi marroni.
Jane: lei ha gli occhi marroni. Da oggi comincerete a notare che perdiamo del gran tempo ad aspettare quelli con gli occhi marroni.”
Qualche istante dopo, Jane si guarda intorno alla ricerca del suo righello e due maschietti si alzano. Rex le indica dove sta il righello e Raymond dice sollecito: «Ehi, Mrs. Elliot, farà meglio a tenerlo sulla cattedra così se quelli scuri [sic], quelli con gli occhi marroni le sfuggono di mano…»
Vennero intervistati quei due bambini, Rex Kozak e Ray Hansen, ormai diventati grandi. Tutti e due hanno gli occhi azzurri. Gli venne chiesto se ricordavano qual era stato il loro comportamento quel giorno. Ray ha riferito: «Sono stato davvero perfido quel giorno. Ero disposto a danneggiare i compagni con gli occhi marroni pur di ottenere la promozione». Ricordava che quel tempo aveva i capelli quasi biondi e gli occhi azzurrissimi: «ero il piccolo, perfetto nazista. Escogitavo dei modi per essere meschino con i miei compagni, anche se qualche ora prima o addirittura qualche minuto prima, mi erano stati cari».
Il giorno seguente Jane invertì l’esperimento, annunciando alla classe:
“I bambini con gli occhi marroni possono togliersi il colletto; ciascuno di voi può metterlo al collo di un bambino con gli occhi azzurri. I bambini con gli occhi marroni avranno cinque minuti in più di ricreazione. I bambini con gli occhi azzurri non hanno il permesso di usare l’attrezzatura del campo giochi in nessuna occasione. Chi ha gli occhi marroni è migliore di chi ha gli occhi azzurri.”
Rex ha descritto l’esperimento invertito: «Prende il tuo mondo e lo manda in mille pezzi, come non era mai successo prima». Quando Ray si trovò nel gruppo emarginato, provò un tale senso di perdita, di personalità e di senso di sé, che gli sembrò impossibile poter funzionare.
Una delle cose più importanti che impariamo come esseri umani, è la capacità di assumere la prospettiva degli altri, e di solito i bambini non sono adeguatamente allenati in questo esercizio. Quando si è costretti a capire che cosa vuol dire mettersi nei panni degli altri, ci si aprono davanti nuovi percorsi cognitivi. Dopo l’esercitazione nell’aula della signora Elliot, Rex fu più attento a non esprimere giudizi razzisti e ricorda di aver detto a suo padre: «non è una cosa appropriata». Rex ricorda con tenerezza quel momento, provò un senso di affermazione personale e capì di aver cominciato a cambiare come individuo.
La genialità dell’esercizio ideato da Jane Elliot sugli occhi azzurri/occhi marroni stava nel capovolgimento della situazione, alternando il gruppo al top. I bambini impararono che le regole possono essere arbitrarie, che nel mondo le verità non sono assolute e per di più non sono necessariamente delle verità. Quell’esercizio permise ai bambini di vedere attraverso la cortina fumogena e al di là de programmi politici, e formarsi una propria opinione, una competenza che certo tutti noi vorremmo per i nostri figli.
L’educazione gioca un ruolo chiave nella prevenzione del genocidio: solo attraverso la comprensione della spinta neurale alla formazione dei gruppi di noi e dei gruppi dei loro (e i trucchi standard per mezzo dei quali la propaganda si inserisce in questa spinta) possiamo sperare di interrompere le vie della disumanizzazione che finiscono nelle atrocità di massa.
Nell’era della superconnessione digitale, diventa più importante che mai capire quali sono i legami umani. I cervelli degli uomini sono fondamentalmente programmati per interagire: siamo una magnifica specie sociale. Anche se la nostra spinta sociale può talvolta essere manipolata, essa comunque resta saldamente al centro del trionfo della storia dell’umanità.
Potrete forse ritenere che il limite del vostro essere sia l’epidermide, ma c’è un senso che non pone limiti alla fine del vostro essere e l’inizio di tutti quelli che vi circondano. I vostri neuroni e quelli di chi vi circonda in tutto il pianeta, interagiscono come un gigantesco, mutevole superorgamismo. Quello che individuiamo come noi stessi è molto semplicemente una rete dentro una rete più vasta. Se vogliamo un futuro più brillante per la nostra specie, dobbiamo continuare a studiare come interagiscono i cervelli umani, quali siano i pericoli e le opportunità. Non si può ignorare la verità impressa nel circuito elettrico del nostro cervello: ognuno di noi ha bisogno degli altri.
Di Andrea Valitutti
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