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L’Europa in cui viviamo oggi guarda in avanti. Il futuro è un mondo in continua e rapida evoluzione, denso di sfide. Per superarle, l’Europa ritiene necessaria la costrizione di una comunità unita da una specifica identità europea. E le nuove generazioni dovranno essere la chiave di svolta di questo progetto. Un Europa di giovani.
Ma chi sono? Italiani, francesi, tedeschi?
“Identità” è un concetto vivo! E perciò mobile, che muta in base alle esigenze dei propri cittadini, al mondo in continua evoluzione. C’è da considerare l’aspetto culturale, che è estremamente vario.
“Sono nata con due culture diverse e ho vissuto in sette Paesi. Ho dovuto imparare molto presto ad adattarmi al mondo che cambiava intorno a me. Ma non è stato sempre tutto rose e fiori. Ho vissuto la difficoltà di dover cambiare continuamente vita, luoghi e lingue differenti. Ho dovuto imparare usanze e culture diverse. Le facevo mie, e questo mi è tornato utile nella mia vita adulta”.
Anna, cittadina italiana di origine brasiliana, che abbiamo intervistato, fa parte della generazione di ragazzi che l’Europa definisce di Terza cultura. Provenienti da famiglie di nazionalità mista, sono ragazzi cresciuti in un Paese diverso da quello della “patria” dei propri genitori, ma che oggi, da adulti, possono dire che l’unione di diverse culture è stato un punto di forza.
“Oltre alle lingue mi ha insegnato ad essere aperta mentalmente, in contatto e in rapporto con l’ambiente che ho intorno. Integrarmi non voleva dire dover abbandonare la mia cultura di origine. Anzi, la difficoltà è stata per i miei genitori che mi parlavano in italiano e portoghese per farmi restare connessa alle mie radici, mentre io tendevo a parlare la lingua del posto. A causa della mia origine ho però dovuto affrontare delle difficoltà. Stereotipi di ogni tipo, preconcetti.
Non tanto in Francia dove ho vissuto gli anni della mia giovinezza, quanto in Italia, quando ho cominciato l’Università. Lì per la prima volta ho sentito che la mia “mezza” nazionalità era un ostacolo. Fino ad allora per me era stato solo un elemento accessorio. Pur essendo in parte italiana, mi sentivo un po’ un pesce fuor d’acqua. Questo forse perché non c’erano così tanti Erasmus”.
Cittadinanza estesa e inclusione. Sembra facile. Abbiamo sentito nominare questi ideali così tante volte, slogan e bandiere di questo o di quel partito. Eppure al livello di singoli Stati pochi hanno fatto passi in avanti. Atavicamente, in Italia, forse per antico retaggio culturale risalente all’antica Roma, cittadino è parola quasi sacra. Un autentico “privilegio”, non un diritto. Basti pensare al fatto che da anni si dibatte sullo Ius Soli, mentre altri paesi hanno fatto passi da gigante in questo senso. E se gli Stati Nazionali pongono limiti legislativi, noi partiamo dalla cultura.
Cos’è un cittadino?
Colui che obbedisce a leggi e beneficia di diritti, o colui che condivide valori comuni? Valori, cultura è identità sono concetti che vanno a braccetto.
Ricordo una vecchia versione degli anni del liceo. In un discorso, l’Imperatore Claudio cerca di far capire ai vecchi patrizi seduti in Senato che estendere la cittadinanza alle provincie, cioè i non italici, sarebbe stata la fortuna di Roma. E così è stato. L’ex straniero, nuovo cittadino romano, era così orgoglioso di questa identità che ha continuato a definirsi romano anche dopo la caduta dell’impero. Non condivideva solo un sistema di leggi ma ne sposava i valori fondanti. Un sistema che, inglobando al proprio interno parte delle altre culture, si modificava nel corso del tempo. La diversità era la ricchezza dell’Impero Romano.
Questa lezione, L’Europa di oggi, quella che punta ai giovani e al futuro, l’ha compresa molto bene. L’ha fatta sua e applicata praticamente sin dall’inizio, dalla sua prima costituzione. Ha fatto della diversità di cultura e dell’inclusione uno dei propri punti di forza, dimostrando che si può essere cittadini che condividono una sola identità pur avendo al proprio interno tante culture diverse. Come? Agevolando la mobilità interna, la reciproca conoscenza. Ma non basta. Se di giovani si parla è dalla scuola che si deve partire.
Molto è cambiato dagli anni in cui Anna frequentava l’università e questo grazie al lavoro che la Comunità Europea sta portando avanti. A partire dalla figura degli insegnanti che non solo, a scuola, devono poter occuparsi di diverse tipologie di alunni, ma devono anche indirizzare lo sguardo degli studenti verso le diverse culture, dalle differenti usanze alle diverse religioni. La discriminazione si vince solo con l’informazione e la cultura, e questa si ottiene in forma privilegiata con lo scambio.
Scambio è la parola chiave.
L’Europa oggi, fornisce vari strumenti pratici per sviluppare aule e scuole inclusive. Attraverso il programma Erasmus+, sia alunni sia insegnanti possono formarsi attraverso un sistema di scambio interculturale che pone l’accento proprio sull’inclusione sociale, ma anche sulla cooperazione. Strumenti pratici vuol dire agevolazioni sugli spostamenti, contributi, piattaforme di discussione e interazione.
Anna conclude la sua testimonianza con un pensiero di speranza: “Molte cose stanno cambiando, tra i più giovani almeno, vedo più apertura e inclusione”.
E questo è un segnale importante. Vuol dire che ciò che si è fatto fino ad ora ha portato dei risultati. Ma non è finita. Il futuro riserva molte sfide. Una di queste e la lotta alla discriminazione di ogni tipo, anche culturale e religiosa.
Gli obiettivi sono più vicini.
Written by: Andrea Famà
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